Il calcio al tempo della crisi, l’Italia riscopre l’Europa League

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Panchina

C’era una volta il campionato più bello e difficile del mondo: si chiamava Serie A. Un campionato composto da 7 sorelle capaci di regalare forti emozioni. Un campionato dove le squadre che si dovevano salvare schieravano attaccanti del calibro di Roberto Baggio, Gianfranco Zola o Dario Hubner; figurarsi chi doveva vincerlo. I più grandi calciatori sognavano di venire nel Bel Paese ad imparare il gioco del pallone. In Champions portavamo tre squadre tra le prime quattro, e giocavamo finali tutte italiane. Il Milan formato Europa è un ricordo a tinte sbiadite oggi, nonostante non siano passati secoli. In Coppa Uefa, attuale Europa League, esultavamo con Lazio, Inter e Parma. Poi la crisi economica e l’incapacità tutta nostrana di adattarci al nuovo mondo del pallone. Stadi vecchi, pochi ricavi, svalutazione dei settori giovanili. Così è iniziata la fuga di piedi buoni dalla Serie A. In Europa periodo nero, per non dire nerissimo. Da esportatori di tattica ad importatori di brutte figure. Snobbata totalmente l’Europa League, definita come di serie B, abbiamo perso il podio nel ranking Uefa, e portiamo sempre meno squadre sui palcoscenici internazionali.

L’arte di arrangiarsi è pero una capacità tutta italiana, e le squadre nostrane, ora, non vedono l’Europa League solo come una fonte di ricavi ma anche come un obiettivo per attrarre giocatori importanti e per ridare valore al nostro campionato. La Juve, se oggi batte il Lione allo Stadium, andrà in semifinale. Non ci riusciamo da 6 anni. Fiorentina-Rangers del 2008. Strano destino che ci lega alla squadra di Glasgow caduta in rovina proprio come parte del nostro pallone. Intanto anche le nobili decadute come Inter e Milan vedono alla competizione europea di seconda fascia come ad un nuovo trampolino dal quale ripartire. Non a caso il Derby di Milano tra 4 giornate sarà uno dei più importanti degli ultimi anni. 8 milioni più sponsor, per i preliminari. Il divario tra le grandi e le piccole si è in parte diminuito, fatta eccezione per le prime 3 posizioni. Indubbiamente questo è un segnale negativo ma può anche essere una base dalla quale ripartire. Se le “Big” italiane sono in crisi allora rifondiamo il calcio dalla classe operaia. Largo ai giovani e alle sorprese Torino, Verona, Parma e Atalanta. A patto che non sia solo un fuoco di paglia.