Chelsea, dove sei finito?

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Immaginate di conoscere una bella ragazza e di rivederla dopo un anno con qualche kg in più, un viso pieno di rughe e un’acconciatura rivedibile. Il Chelsea di José Mourinho ha impiegato meno di un anno per invecchiare in maniera tanto evidente. Nel 2014/15 i “blues”, in questo momento della stagione, comandavano la Premier League con 24 punti. Per la prima volta si parlava di una squadra di Mourinho senza pareri discordanti perché i suoi calciatori vincevano e convincevano. In ognuno dei suoi ragazzi trasudava la voglia di buttare il cuore oltre l’ostacolo Thibaut Courtois, arrivato dall’Atletico Madrid, raggiungeva livelli di intensità da marine dell’esercito per superare la concorrenza interna di Petr Cech; John Terry era insuperabile dopo essersi sentito di peso sotto la gestione Benitez; Cesc Fabregas era il regista dei tempi dell’Arsenal dopo gli anni discutibili da falso nueve nel Barcellona del tikitaka e Diego Costa era il centravanti perfetto per una squadra che doveva ammazzare il campionato: col killer istinct sotto porta e con lo spirito di sacrificio colchonero.

Nel 2015/16 il Chelsea si è sgonfiato ed il primo motivo è facilmente intuibile e lo ha riassunto Fabio Capello con una sua frase: “Io stimo da sempre Mourinho, ma dopo due anni in una stessa squadra lui brucia giocatori”. Perché quello che – a parer mio – è il più grande allenatore del Mondo, da sempre deve scontrarsi con l’effetto boomerang del suo modo di allenare. Mou è il migliore nella cura dei dettagli, nel far percepire la consapevolezza dei propri mezzi ai propri assistiti e nel saper oscurare la luce dei riflettori per togliergli pressione. Ma è anche un uomo che pretende sempre il massimo, la sconfitta non è un’opzione nella sua idea di football e questo in un anno in cui le cose non vanno per il verso giusto può rivelarsi un handicap troppo grande. Anche perché la sensazione è che quest’anno la sua squadra sia svuotata ma non gli sia contro, quindi più che tenere alta la tensione servirebbe abbassare i toni cercando di gestire il calo fisico dei suoi. Mou, invece, quando è in difficoltà tende a trovare il capro espiatorio perché non si accontenta di una stagione in anonimato per conservare il posto. Nella sua testa il calcio, come la vita, è “8 o 80” (proverbio portoghese per dire che non esistono mezze misure) e cercare una vittima da sacrificare in nome del gruppo è la carta della disperazione per raddrizzare la situazione. Gli è successo così con la dottoressa Carneiro ad inizio stagione e sta proseguendo allo stesso modo con Matic in questi giorni. Per quanto sia machiavellica e polticamente scorretta la sua visione del mondo è certamente un modus operandi che lo ha portato sempre lontano. Ora, la palla passa alla società: fidarsi completamente del proprio condottiero per poi smembrargli la squadra; licenziarlo puntando su un allenatore meno ingombrante e più aziendalista. La prima opzione è forse la più intrigante. Mou con un roster nuovo di zecca potrebbe ritornare ad essere costantemente martello senza essere – a fase alterne – anche incudine. Mou è prendere o lasciare e il suo presidentissimo Roman farebbe bene a tenerselo stretto ancora una volta.