Football Legend – Giorgio Chinaglia

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Giorgio Chinaglia, indimenticato bomber della Lazio, dal Galles all’Italia quasi per caso.

“Italia, Paese di santi, poeti e navigatori”: un’affermazione che ha fatto conoscere l’Italia nel Mondo, a tutte le latitudini.

Ivanka Trump, la figlia secondogenita del Presidente americano Donald, questo detto lo conosceva. Altrimenti non avrebbe chiesto al proprietario del ristorante a pochi passi dal Pantheon e piazza Navona dove era a cena durante il suo soggiorno romano, chi fosse quell’uomo raffigurato con la testa in su e la braccia larghe. La titolare si sarà emozionata dicendo che quello non era un santo qualunque, ma un simbolo di generazioni di tifosi laziali, il giocatore simbolo di una Lazio che nel 1974 era arrivata a vincere il suo primo storico scudetto. Un calciatore mitico, una venerazione pagana per il sacro rito del calcio capitolino sponda biancoceleste. Uno che o lo si è amato o lo si è odiato, uno non da mezze misure ma da grossi gol: Giorgio Chinaglia.

Giorgio Chinaglia era l’emblema di colui che ce l’ha fatta partendo dal nulla. Come nulla avevano i suoi genitori che lo lasciarono dai nonni con la sorella nella natia Carrara per loro andare a cercare fortuna in Galles. Dura la vita dell’emigrante anche allora: non si conosceva la lingua, non si conoscevano le tradizioni dei posti, si era soggetti a canzonature e ad essere alla mercé degli stereotipi degli abitanti del posto. Babbo Mario trovò lavoro in miniera, un lavoro che molti connazionali avevano intrapreso nei loro nuovi Paesi e che chi ci abitava non voleva fare. Eppure i Chinaglia dal nulla riuscirono ad aprire un ristorante e quando Giorgio compì nove anni si imbarcò (si dice con un cartello al collo in cui vennero scritte le sue generalità e il luogo dove era diretto) verso Cardiff.

Per Chinaglia junior la vita fu dura nel nuovo Paese, ma gli piacevano sia il football che il rugby, due sport-religioni da quelle parti: non lesinava di giocare con i piedi e dava il meglio di sé anche nelle mischie e nelle uscite con la palla ovale tra le mani. Dovette fare una scelta: scelse il football.

E Chinaglia, nato in una provincia dove si diffuse il movimento anarchico, non è mai stato uno che andava per il sottile: brusco, poco incline alle regole, testone. Per questo giocò con il “proletario” Swansea City invece che nell’”aristocratico” Cardiff, solo per il fatto che quest’ultimi si erano permessi di provinarlo.

Con i “cigni” giocò due stagioni, una in Second division e una in “terza” ed i numeri furono importanti per un diciottenne. La squadra credette in lui ma dopo un po’ ci ripensò. Giorgio era arrabbiato, così come il padre che vide nel suo figliolo lo strumento giusto per rifarsi (economicamente) degli anni faticosi trascorsi lontani da casa. Indi per cui il padre ritornò in Italia e portò il figlio nella squadra della città-gemella dove erano partiti anni prima, la Massese, allora militante in Serie C. Dopo un inizio difficile e qualche intemperanza, il 20enne Chinaglia fece vedere cose interessanti in campo. La sua vita aveva cambiato verso: era un ragazzo british in terra straniera. Un ragazzone alto, sgraziato, grezzo tecnicamente, ma con un grande potenziale.

Nella stagione 1966/1967 Giorgio Chinaglia era la punta della squadra di mister Genta che disputò un tranquillo campionato di Serie C. Non fu il migliore della rosa, ma giocò più partite di tutti.

Nell’estate successiva alla corte dei Chinaglia (allora non esistevano gli agenti) arrivò la classica proposta che non si poteva rifiutare: lo volle l‘Internapoli, club in auge della città partenopea con propositi di promozione in B. Il giocatore passò al club ex CRAL Cirio per 108 milioni. In due stagioni siglò 24 reti. A Napoli Chinaglia conobbe anche la donna della sua vita, Costance Eruzione detta “Connie”, figlia di un militare di base nella città di san Gennaro e sorella di Mike, promessa (mantenuta) dell’hochey su ghiaccio a stelle e strisce.

Nell’estate 1969 si fece avanti la Lazio del presidente italo-americano Umberto Lenzini che staccò un assegno molto corposo per portare sotto al Colosseo il bomber di Carrara e Giuseppe Wilson, libero nato in Inghilterra ma cresciuto a Napoli. Lenzini voleva a tutti i costi portare in alto la Lazio. Per Chinaglia fu un sogno: dopo la gavetta personale e calcistica in Galles, nel giro di pochi anni era approdato dove sognavano tutti di giocare, nella Serie A italiana.

Chinaglia rimase alla Lazio sei stagioni…e un pezzo, giocando 246 partite e segnando 122 reti, di cui novantotto in campionato: a oggi è terzo nella classifica marcatori degli “aquilotti”, dopo Piola e Signori.

La prima stagione (1969/1970) vide la neopromossa Lazio con in panchina l’argentino Lorenzo, un duro, un sergente di ferro. Chinaglia da lui imparò molto e segnò dodici reti. La squadra si classificò ottava e si qualificò per la Coppa delle Fiere, ma la stagione successiva retrocesse ancora in cadetteria e Chinaglia segnò solo nove reti. Qualcuno mugugnò.

Cambio in panchina: via Lorenzo, dentro Maestrelli. E la storia del club (e di Chinaglia) cambiò in meglio. Pisano di nascita ma pugliese di adozione, Maestrelli la stagione precedente era sulla panchina del Foggia, anch’esso retrocesso come la Lazio. Eppure era l’uomo giusto, al momento giusto e al posto giusto. Uomo generoso, saggio e geniale, Maestrelli è stato il guru di quella “Lazio dei miracoli”, colui che ha plasmato Chinaglia e di cui è stato un secondo “padre”.

I biancocelesti vennero subito promossi, Chinaglia vinse la classifica marcatori con ventuno reti e fu convocato dal Commissario tecnico Ferruccio Valcareggi in Nazionale: mai era stato convocato un giocatore militante in cadetteria nella Nazionale maggiore.

La neopromossa Lazio fece il risultato migliore dalla stagione 1956/1957: terzo posto a due punti dalla Juventus campione d’Italia con qualificazione alla Coppa Uefa. Chinaglia, maglia numero 9 sulla spalla, era il leader di una squadra molto forte arrivata ad un soffio dallo storico titolo, con la Roma undicesima a – 19 punti.

Era una squadra un po’ particolare quella Lazio, unita solo in campo con i giocatori divisi in fazioni che non potevano vedersi nello spogliatoio e che negli allenamenti ci andavano giù pesanti. In campo invece era un’orchestra perfetta con le due fazioni (capitanate da Chinaglia e Re Cecconi) che davano l’anima e riuscivano a far sognare i tifosi laziali.

Nella stagione 1973/1974 si compì il miracolo: Lazio campione d’Italia per la prima volta e Giorgio Chinaglia vincitore della classifica marcatori con 24 reti. L’ultimo laziale a vincere la classifica marcatori risaliva alla stagione 1942/1943 e fu Piola ad aggiudicarsela.

Chinaglia raggiunse l’apice della fama tra i tifosi laziali in due partite: il derby di ritorno e l’ultima partita di campionato contro il Foggia. Nella prima, datata 31 marzo, segnò il gol del 2-1 su rigore e andò sotto la Curva Sud con il dito destro puntato contro i supporter romanisti dopo che questi lo avevano imbeccato per tutta la partita; 12 maggio 1974, ultima partita del campionato con 81mila spettatori e Chinaglia siglò il rigore della vittoria che consegnò il titolo alla Lazio contro il Foggia. Quel giorno gli italiani vollero il divorzio, Chinaglia consegnò il tricolore alla città di Roma dopo trentadue anni di attesa, proprio lui che visse i derby in maniera molto importante e fu l’emblema dell’anti-Roma. In estate si improvvisò anche cantante, con il singolo “Football crazy” con il supporto degli Oliver Onions.

La Lazio fu la prima squadra della capitale a giocare la Coppa dei Campioni…che non disputò a causa delle intemperanze contro l’Ipswich Town nei sedicesimi di Uefa da parte di giocatori e tifosi contro la direzione arbitrale di Van der Kroft. La squadra fu squalificata per tre anni dalle coppe europee, poi ridotta ad una stagione, con la Lazio che non poté disputare per la prima volta il torneo europeo più importante per squadre di club. Si concentrò solo sul campionato che la vide arrivare quarta con Chinaglia che siglò quattordici reti, ma non era più come prima.

Qualcosa stava cambiando: nel marzo 1975 Maestrelli fu ricoverato in ospedale per il peggioramento delle sue condizioni di salute e la stagione la concluse Lovati in panchina. Per la stagione 1975/1976 il nuovo allenatore biancoceleste fu Giulio Corsini. L’assenza del “secondo padre” per tanti giocatori fu deleterio tanto che la squadra si trovò a lottare per non retrocedere. Maestrelli si riprese e tornò in panchina dopo l’esonero di Corsini, ma Chinaglia nella primavera 1976 si trasferì negli States per stare di più vicino alla sua Connie, scappata da Roma perché non sopportava più l’ambiente romano (e romanista) soprattutto dopo i fatti del Mondiale di due anni prima. Long John fuggì dall’Italia lasciando la “sua” Lazio proprio nel momento in cui uno come lui serviva come il pane.

Oltre Oceano da otto anni si era creata una lega calcistica dove il tasso tecnico era scadente, ma i dollari viaggiavano a mille, la NASL. La massima serie americana era un piccolo cimitero degli elefanti dove i grandi del calcio mondiale andavano a strappare l’ultimo contratto miliardario della loro carriera e a diffondere il soccer in un Paese dove non c’era mai stato interesse. Chinaglia fu tesserato per i NY Cosmos e per Maestrelli l’addio di Long John fu come un tradimento: l’allenatore toscano morì il 2 dicembre 1976. L’erede della maglia numero 9 di Giorgio Chinaglia fu un 21enne di Trastevere, Bruno Giordano.

I New York Cosmos erano la squadra più mediatica e forte di sempre della NASL. Se oggi andare a giocare all’estero per un calciatore italiano fa parte del mestiere, a quei tempi andare a giocare in un campionato estero, per di più in un Paese dove il calcio contava meno del fante di picche, era un qualcosa di pionieristico. Chinaglia fu il precursore di una fitta rete di giocatori italiani che andarono da quelle parti a chiudere in bellezza (e con ricchissimi ingaggi) la loro carriera. Fecero grande la NASL anche i vari Pelé, Cubillas, Beckenbauer, Neskeens, Crujiff, Best e Carlos Alberto. Chinaglia giocò in squadra con Pelé, Carlos Alberto, Spiegler, Beckenbauer, Van der Elst, Romerito e l’ex compagno Wilson.

Il mito del Chinaglia americano iniziò nel 1976 e si chiuse nel 1983: quattro titoli, quattro classifiche marcatori consecutive (231 reti segnate in otto stagioni), con il titolo di miglior giocatore nel 1981. E pensare che l’amore tra Chinaglia e il soccer era nato dopo una partita con Hartford Bicentennials, squadra della città del Connecticut, contro l’allora forte Nazionale polacca prima del suo approdo negli Usa.

Nel 1983 si ritirò dal calcio e divenne Presidente della Lazio, carica che mantenne fino al 1986 quando la lasciò a Franco Chimenti. La presidenza Chinaglia fu, a livello di risultati, una delle peggiori del club proprio negli anni in cui la Roma aveva ripreso il primato cittadino.

Tra il 1986 ed il 1990 Chinaglia rimase negli Usa, salvo nel 1990 quando, a 43 anni, si rimise gli scarpini ai piedi vestendo i colori del Villa San Sebastiano, squadra dilettantistica di Tagliacozzo, nella Marsica abruzzese.

Negli anni Novanta iniziarono per Chinaglia i problemi giudiziari: condanna a due anni di prigione per bancarotta fraudolenta e falso in bilancio per i suoi anni alla presidenza laziale (1996) ed accusa di aggiotaggio, estorsione, riciclaggio di denaro sporco nella tentata scalata alla Lazio (2006-2008). Chinaglia visse in esilio (anzi da latitante) negli Usa fino al giorno della sua morte, avvenuta in Florida il 1° aprile 2012 a 65 anni per infarto. Dopo un iter burocratico, da tre anni la salma di Chinaglia è tumulata nel cimitero romano di Prima Porta accanto a quella del suo mentore, Tommaso Maestrelli.

Questo è stato Chinaglia: una vita da odi et amo, alti e bassi, vittorie e sconfitte, cadute (tante) e risalite (poche). Come la sua parentesi in Nazionale.

Convocato giustamente per i Mondiali tedeschi del 1974, ne fu l’anti-eroe. Svogliato dopo la sbornia scudetto, l’attaccante apparve sin dalle amichevoli abulico, distratto e per nulla in forma. Ma era tutta la squadra ad essere lontana dalla forma migliore, tanto che il carneade Sanon portò in vantaggio i suoi nel match inaugurale contro Haiti: cose da pazzi, quasi una seconda Corea.

Dopo il pareggio di Rivera, Chinaglia venne chiamato in panchina per fare posto ad Anastasi. L’attaccante uscì imprecando contro Valcareggi e corse direttamente negli spogliatoi. Scandalo: mai nessun giocatore aveva mancato rispetto verso la Nazionale. Ci volle l’intermediazione di Maestrelli affinché Chinaglia non fosse spedito in Italia. I rapporti tra Chinaglia e Valcareggi furono da sempre tesi e un primo scontro lo ebbero prima della partenza per la Germania per il fatto che il Ct aveva solo convocato tre giocatori della Lazio campione d’Italia (lo stesso Long John, Re Cecconi e Wilson).

Ma Chinaglia ha contribuito a scrivere una grande pagina del nostro calcio il 14 novembre 1973. Wembley, amichevole Inghilterra-Italia: mai la nostra Nazionale era riuscita a vincere in casa dei “maestri” inglesi. La partita era molto sentita in parte per il prestigio del match, ma anche perché in Gran Bretagna abitavano oltre 30mila persone di origine italiana che aspettavano quella partita come una rivalsa dopo anni di derisioni e di cattiveria da parte degli inglesi. Minuto 86, 0-0 il punteggio e Capello da centrocampo passò la palla a Chinaglia sulla destra. Il numero 9 azzurro arrivò fino all’area avversaria. Cross di destro, deviazione di Shilton e lo stesso Capello insaccò: Italia in vantaggio. Al triplice fischio fu un tripudio: l’Italia aveva battuto per la prima volta l’Inghilterra a casa sua. E chissà cosa è passato nella testa di Chinaglia: il figlio di emigranti, il figlio del lavoratore della miniera prima e del ristoratore dopo anni di denigrazioni e poco rispetto si era tolto la soddisfazione di aver battuto gli arroganti inglesi.

Questo è stato Giorgio Chinaglia, tutto e il contrario di tutto. Con l’amore per il calcio e la passione di uno che si è rimboccato le maniche ed è passato dai campi fangosi del Galles a vincere uno scudetto storico con la Lazio allora una squadra anonima del calcio nazionale. Un uomo eroico ed emozionale che si è fatto da solo e che è partito sempre da zero e che ha toccato il cielo con un dito.

Ed è anche per questo che Ivanka Trump ha chiesto chi fosse quell’uomo con la maglia bianco-celeste, il volto all’insù, le mani aperte quasi a concedere una grazia accanto ad un’effige di Padre Pio.

Un santo no, ma un eroe contemporaneo sicuramente si.