Le delusioni di José Mourinho

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Quando si parla di José Mourinho, nulla è da lasciare al caso.

Il tecnico portoghese da martedì mattina non è più l’allenatore del Manchester United. Un amore mai del tutto sbocciato con la piazza mancuniana, nonostante la vittoria due stagioni fa della Europa League, il trofeo che mancava al club per completare il Grande Slam di vittorie europee. Ma non solo, il mago di Setúbal ha anche condotto, il primo anno, la squadra quadra a vincere il Community Shield e la Coppa di Lega guidato in campo da un clamoroso Zlatan Ibrahimović.

Nonostante questo, in due stagioni e mezzo non c’è mai stato il guizzo, quel quid che Mourinho ha sempre dato nei club in cui ha allenato e dove ha scritto la storia del calcio moderno. Il Manchester United credeva di aver trovato in lui il vero erede (come successi pesanti) di quell’Alex Ferguson che dalle parti di Old Trafford è ancora oggi una divinità. Da quando Sir Alex ha detto addio ai Red devils (estate 2013), nessun altro allenatore ha fatto bene ed il solo Mourinho era quello indiziato come essere un “Ferguson 2.0”.

Ma José Mourinho è stato esonerato: ha pesato come un macigno la sconfitta di domenica ad Anfield Road contro il Liverpool di Jurgen Klopp oggi primo in classifica in Premier con lo United sesto staccato (a oggi) di ben diciannove punti.

L’esonero per un allenatore è un fallimento, una pagina buia della propria carriera, una cosa che ogni tecnico deve mettere in conto, ma nel caso di Mou questo è stato il primo esonero vero e proprio della carriera perché i due cicli al Chelsea (2004-2007 e 2013-2015) si erano chiusi con la rescissione contrattuale del contratto con il club londinese, mentre al Real Madrid Mourinho disse addio dopo tre stagioni, alla luce di un contratto quadriennale.

Ed essendo uno che ha sempre spaccato l’opinione pubblica, l’esonero dal Manchester United ha riportato il portoghese sulla bocca di tantissimi tifosi tra chi lo rivorrebbe ancora (Inter e Real Madrid su tutte) e chi invece sostiene che è un tecnico finito, superato e che vive di luce riflessa da otto anni, dai tempi di quel triplete clamoroso fatto con l’Inter che lanciò di fatto José Mário dos Santos Mourinho Félix nell’Olimpo dei grandi del calcio.

E proprio il 2010 è stato il suo anno d’oro: dopo i successi con il Porto (due titoli nazionali consecutivi, una Coppa ed una Supercoppa portoghese, una Coppa UEFA ed una Champions League in tre stagioni), l’approdo all’Inter lo ha reso leggendario ed i tifosi del Biscione, nonostante la firma dello Special one con il Real Madrid al termine del vittorioso match del 22 maggio 2010 al “Bernabeu” contro il Bayern Monaco, lo amano ancora oggi lo rivorrebbero subito in sella all’Inter per sostituire Luciano Spalletti, che tutto è tranne José Mourinho.

In Italia, lo Special one è ricordato per una comunicazione verbale non indifferente (dal “non sono un pirla” della prima conferenza stampa all’accusa di “prostituzione intellettuale” ai giornalisti al gesto delle “manette” il 20 febbraio 2010 durante Inter-Sampdoria per evidenziare un errore marchiano, a suo avviso, dell’arbitro Tagliavento), mentre con il Real Madrid, visto che in tre stagioni non è riuscito a vincere la decima Champions League, i suoi obiettivi mediatici sono stati Josep Guadiola ed il Barcellona. Ed il siparietto con il tecnico catalano si è ripetuto quando entrambi sono stati chiamati ad allenare le due squadre di Manchester. Che brividi: due dei migliori allenatori del XXI secolo, che si odiano come cani e gatti, alla guida delle due squadre ambiziose e miliardarie di Manchester.

I due hanno vinto in pratica gli stessi trofei in questi due anni e mezzo (Mou l’Europa League, il filosofo di Santpedor il campionato), ma il portoghese ha fallito perché a oggi lo United, nonostante l’ottavo di finale di Champions conquistato (dove incontrerà il Paris Saint Germain), è lontano dal quarto posto Champions e vede allontanarsi sempre di più il sestetto Liverpool-ManCity-Tottenham-Chelsea-Arsenal. Tutto dopo che la squadra mancuniana ha speso 860 milioni di euro in acquisti tra il 2013 e oggi (vale a dire dopo l’addio di Alex Ferguson), vincendo solo due Community Shield, due Coppe di Lega, una FA Cup, un’Europa League, raggiungendo al massimo i quarti di finale di Champions League cinque anni fa ed in Premier League è arrivata seconda la scorsa stagione (best position dalla stagione 2012/2013) a diciannove punti dal City di Guardiola.

Ma Mourinho da martedì è former coach del Manchester United, con buona pace (e godimento) di Paul Pogba. Il “polpo” è arrivato molte volte a criticare apertamente Mourinho, tanto che si è vociferato di un suo addio al club inglese (che aveva speso per lui 105 milioni di euro) per un ritorno alla Juventus se lo Special One fosse rimasto in sella. Addio ora lontano visto che Mourinho è stato dismissed.

Sono stati fatti dei calcoli ad hoc: nelle due stagioni e mezzo a Manchester, Mourinho è costato, solo di alloggio in hotel (non in un alberghetto di provincia ma in una costosa camera privata del Lowry Hotel di Manchester) qualcosa come un milione di euro e oltre cinquecentomila euro in mance al personale. E non è finita, perché i Red devils verseranno a Mou lo stipendio fino alla scadenza naturale del contratto. Ed avendo firmato tre anni fa un contratto triennale da 60 milioni a stagione, fate voi i conti di quanto dovrà ancora percepire come “salario” ancora lo Special one dal club inglese.

Con lo United, José Mourinho sarà anche ricordato per altri due gesti comportamentali iconici nei riguardi dei tifosi juventini nei due match della fase a gironi di Champions League: all’andata, ad Old Trafford, il gesto delle tre dita in ricordo del (fu) triplete nonostante la vittoria bianconera; al ritorno l’aver avvicinato la mano all’orecchio destro dopo la vittoria dei Red devils nei minuti finali dopo oltre 90 minuti di insulti nei suoi confronti.

Ma Mourinho non è uno che si abbatte. Sicuramente la prossima stagione troverà una panchina e chiunque lo tessererà gli chiederà una cosa sola: vincere tituli che contano. Una parola, “vittoria”, tatuata nel cuore, nella mente e sulla pelle del tecnico di Setúbal ma che ultimamente si sta scolorendo.