Home Editoriale Vent’anni di “sentenza Bosman”. Fu vera gloria?

Vent’anni di “sentenza Bosman”. Fu vera gloria?

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Nel 1995 nel Mondo si festeggiava l’uscita del sistema operativo “Windows 95” e la commercializzazione in Europa della “Playstation”; dei fanatici giapponesi gettarono del gas nervino nella metropolitana di Tokyo; divenne attivo il sito di aste on line “Ebay”; in Europa l’11 luglio ci fu il massacro di Srebrenica, dove circa settemila musulmani bosniaci furono uccisi da parte delle truppe serbo-bosniache del generale Mladić; l’ex SS Erik Priebke venne estradato in Italia dall’Argentina per la strage delle Fosse ardeatine; nacquero Alleanza Nazionale a gennaio e l’Ulivo a dicembre; a settembre Anna Valle divenne la sesta siciliana a vincere la fascia di Miss Italia. Tutti eventi che nulla hanno a che fare con il gioco del calcio. “Non mi dire che non è successo nulla nel Mondo del calcio quell’anno!”, esclamerà un disattento amante del gioco del football. Il 1995, anno dispari e quindi senza eventi sportivi di rilievo, ha visto un solo evento (a parte Champions League e Copa Libertadores), la Copa America, vinta per la quattordicesima volta dall’Uruguay. Ma il vero Evento (con la E maiuscola) si tenne nell’aula della Corte di Giustizia dell’Unione Europea di Lussemburgo e non su un rettangolo verde di gioco: il 15 dicembre 1995 fu emanata la “sentenza Bosman” (in gergo, sentenza sul caso C-415/93) ed il calcio europeo cambiò radicalmente ed irrimediabilmente. Nel bene e nel male.

In base a quella sentenza, la figura professionale del calciatore veniva messa sullo stesso piano di un’altra qualsiasi. Il punto focale fu l’articolo 48 del Trattato CEE. Tradotto a livello calcistico, fino ad allora un giocatore, alla scadenza del contratto che lo vincolava ad una squadra, poteva essere ingaggiato da un’altra previo pagamento di una quota parametrizzata secondo dei criteri formali imposti dalla UEFA ed ogni squadra poteva tesserare un massimo di due/tre giocatori appartenenti ad uno Stato diverso da quello dove aveva sede la squadra. La Corte, dopo cinque anni di dibattimento, disse che questa pratica era contraria alla libera circolazione delle persone (e di conseguenza dei lavoratori) e si andava a ledere il Trattato di Roma.

Da allora, un calciatore può giocare (quindi, circolare) in un campionato di una qualsiasi serie di una di qualsiasi Nazione appartenente all’Unione europea ed in più (e questo fu il centro della questione) a sei mesi dalla scadenza del contratto il giocatore può firmare un pre-contratto (tra il 1° gennaio ed il 30 giugno) con un’altra squadra, svincolandosi a partire dal 1° luglio. Il club di appartenenza, per non perdere il giocatore a parametro zero (come si disse da allora per definire un giocatore senza contratto), deve cercare un accordo con questo (e con il suo procuratore, soprattutto) per cercare il rinnovo. Se non c’è un accordo, dal 1° luglio il calciatore può essere preso da un’altra squadra che dovrà solo pagarne l’ingaggio, non dando un centesimo alla squadra precedente come invece avveniva. Se il giocatore cambia squadra durante il corso del contratto, la squadra che lo vorrà acquistare dovrà pagare il prezzo intero del cartellino alla squadra in cui milita il giocatore e il cartellino costerà sempre di meno verso la scadenza, visto che negli ultimi 180 giorni può già accordarsi con un’altra.

Fino a quel momento, inoltre, una squadra di club europea poteva avere tra i due e i tre giocatori “stranieri” (comunitari e/o non comunitari) in rosa, ma da allora, una rosa di una squadra può essere composta, senza nessun problema, da soli giocatori europei comunitari lasciando solo tre posti per giocatori extracomunitari.

In tanti hanno gridato allo scandalo: undici-giocatori-undici non italiani in campo a fine anni Novanta per l’Inter quando invece il Piacenza giocò dal campionato 1995/1996 al 2000/2001 senza nessun giocatore straniero in rosa, salvo poi cedere anche lei al fascino dell'”esotico”, rappresentato allora da un rumeno e due brasiliani, di cui uno poi sarà un oriundo e nell’agosto 2010 giocherà la sua prima, ed unica, partita con la maglia azzurra, ovvero Amaurì. L’attaccante ex Palermo e Juventus divenne italiano grazie al doppio passaporto della moglie che, nel marzo 2009, da brasiliana, era diventata cittadina italiana viste le sue (lontane) origini italiane.

Di conseguenza “fatta la legge, gabbato lo santo” come recita un adagio: si sono affievolite anche le modalità per diventare europei, tanto che molti giocatori, in particolare sudamericani ed africani con origini comunitarie, posso diventare in breve tempo comunitari se dimostrano di aver un parente nativo di un Paese comunitario (esempio l’Italia per i sudamericani, la Francia per i giocatori nativi di Paesi africani) o sposarsi con una donna comunitaria o diventare cittadini dopo un tot di anni di residenza nel territorio dello Stato comunitario.

Nel 2001, come se non bastasse, nel nostro Paese, si alzò il polverone dei passaporti falsi, ovvero giocatori stranieri (sudamericani in particolare), divennero comunitari con facilità disarmante e si scoprì una truffa clamorosa ai danni dello Stato: furono coinvolti quattordici giocatori (sette brasiliani, due argentini, un uruguaiano, un paraguaiano e tre camerunensi), sei squadre di A (Milan, Inter, Lazio, Roma, Udinese, Vicenza), una di B (Sampdoria) più quindici dirigenti (di cui otto assolti). Il classico pasticcio all’italiana.

L’autore di tutto questo pandemonio si chiamava (e si chiama tuttora) Jean-Marc Bosman.

Ma chi era questo giocatore che ha cambiato in peggio, o in meglio a seconda dei punti di vista, il calcio europeo? Innanzitutto Jean-Marc Bosman fino al 1990, quando iniziò il processo, era un modesto centrocampista belga nato a Liegi, in Vallonia, il 30 ottobre (lo stesso giorno di Diego Armando Maradona) 1964 ed aveva militato nella serie maggiore belga, la Pro League, con la maglia delle due squadre della sua città, lo Standard e l’RFC, arrivando anche a vestire il “rosso” della Nazionale Under 21.

Nel 1990 cosa successe? Bosman militava nell’RFC Liegi e a fine campionato decise di andare via, chiedendo il passaggio al Dunquerke, club allora militante nella serie B francese che gli offriva un lautissimo ingaggio. Il club del Dipartimento Nord-Passo d Calais non ebbe i soldi per prenderlo (ovvero, l’indennizzo calcolato secondo i parametri UEFA era troppo alto) in anticipo come voleva il Liegi ed il club belga non lo lasciò partire, bloccandone il trasferimento in quanto nel giro di poco tempo chiese quattro volte l’indennizzo alla squadra del Nord della Francia. Il club belga prese male la scelta del suo atleta di cambiare squadra e decise di ridurgli prima lo stipendio e poi di metterlo fuori rosa. Bosman si rivolse ad un tribunale, sostenendo che era un suo diritto andare a giocare dove voleva (tra l’altro in un club di un altro Paese e per di più in una serie inferiore). I suoi difensori furono gli avvocati bruxellesi Luc Misson e Jean Louis Dupont che presero la palla al balzo per creare i presupposti per un sentenza-shock. Durante le fasi del processo, durato ben cinque anni, Bosman cercò un ingaggio nel Mvv Maastricht ma l’accordo non arrivò, giocò quattro mesi nel Saint Denis (nelle Isole Reunion), nell’Olympic Charleroi e nel Vise’, club di terza e quarta serie belga. Insomma, a margini della periferia del calcio europeo.

Il 15 dicembre 1995, vent’anni fa oggi, come detto, fu emessa la storica sentenza che rivoluzionò i movimenti calcistici europei-

Il processo, vinto da Bosman contro la Federcalcio belga, il Liegi e la Uefa, lo rese un giocatore conosciuto a livello mondiale, ma l’allora 31 enne centrocampista non trasse mai giovamento da questa sentenza, non solo in termini monetari (l’indennizzo andò tutto in avvocati e spese processuali), ma anche a livello di carriera, tanto da essere diventato una persona scomoda da avere in rosa.

La sua carriera continuò fino al 1996 dopo di che si ritirò, mentre la sua vita subì un pesante contraccolpo: divenne un alcolizzato, si impoverì, cerco di disintossicarsi (nel 2007), vivendo con un sussidio statale molto basso e nel 2012 è stato condannato per violenza domestica, annunciando di tentare anche un gesto estremo se la sua situazione non subirà un contraccolpo positivo.

Una caduta vorticosa nel baratro, contestualmente al fatto che i suoi colleghi calciatori beneficiarono in maniera spropositata della sentenza che portò il suo nome. E beffa delle beffe, il comune di Awans, nei pressi di Liegi, gli ha anche offerto un posto da addetto alla manutenzione del campo della squadra cittadina che milita tra i dilettanti del Belgio e che si allenano dopo la giornata lavorativa.

E pensare che grazie a lui molti giocatori, anche scarsi, sono diventati comunitari come nulla fosse, hanno anche indossato le maglie di Nazionali a loro lontane e tanti, soprattutto, possono scegliere con che Nazionale giocare (il caso di Adrian Januzaj che lo scorso anno scelse il Belgio dopo essere stato corteggiato da Inghilterra, Albania, Serbia, Kosovo e Turchia è uno degli esempi lampanti).

A venti anni da quella storica giornata, il calcio europeo è cambiato radicalmente, come sono cambiati gli ingaggi dei giocatori facendo la fortuna dei procuratori. Chi ha pagato più di tutti sono le squadre di club meno prestigiosi (o comunque con investimenti limitati) e le Nazionali che hanno nei propri campionati molti stranieri. Due di queste sono la Nazionale inglese e quella italiana: la Premier League è il campionato più bello, ricco e multietnico d’Europa, solo che i giocatori inglesi sono pochi nelle squadre di club cosicché la Nazionale fa fatica ad imporsi a livello mondiale e continentale, mentre l’Italia, a parte l’exploit di Polonia-Ucraina 2012, è reduce da due pessime figure negli ultimi Mondiali ed i Commissari tecnici italiani Conte e di Biagio fanno fatica a trovare i giocatori giusti e all’altezza di vestire l’azzurro. Tanto per intenderci, da qualche anno i giocatori convocati in Under 21 provengono dalla Serie B. In tanti hanno gridato allo scandalo: una cosa impensabile durante la gestioni di Cesare Maldini e Claudio Gentile, ovvero il periodo dove l’Italia dominava la scena calcistica giovanile europea con giovanotti che si sarebbero poi affermati nei grandi club e che avrebbero vinto il Mondiale tedesco (ben quattordici sui 23 campioni in Germania avevano vinto almeno un Europeo Under 21).

Cosa dovrebbe fare l’Italia, una delle Nazionali più in crisi di talenti? Purtroppo non si può tornare indietro a quando si chiusero le frontiere calcistiche dalla debacle inglese contro la Nord Corea fino al 1980. La legge comunitaria lo vieta. Si potrebbe investire di più sui vivai, ma anche questi sono stati colpiti dalla “Bosman” e la nostra Serie A è passata dall’essere il campionato più bello del Mondo a guadagnare tanta mediocrità che non le serviva, scendendo nel ranking Uefa.

Che fare allora? Semplice, la “Bosman” non vieta di prendere giocatori stranieri comunitari, ergo le squadre italiane dovrebbero acquistare solo ed esclusivamente giocatori italiani. E pazienza se magari a livello di club e Nazionali non si vincerà per anni, giusto per dare sfogo ai calciatori nostrani che non trovano posto nella massima serie. Sarebbe una cosa positiva fare come in Spagna e Belgio, le due Selezioni che stanno sfruttando al meglio i potenziali delle loro cantere e dovrebbero essere da esempio per tutti, ma nel caso del Belgio il Paese (calcisticamente) è stato rivoltato come un calzino. Una cosa che in Italia si cerca di fare da anni ma che ancora oggi siamo qua ad aspettare il momento giusto.

Ai posteri l’ardua…sentenza, quindi. Sperando che Jean Marc Bosman, l’uomo che ha cambiato il calcio senza volerlo, possa ancora vedere dal vivo tutto questo, in quanto ha anche minacciato di togliersi la vita se la vita non gli avesse più sorriso.

La vita vale molto più di un pre-contratto milionario e di un trofeo in più in bacheca. Alla fine, quindi, non fu vera gloria.

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