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Storie di autogol…

COME UN’OPERA D’ARTE RISCHIA DI ESSERE SVILITA DALLE FREDDE STATISTICHE

Viviamo perennemente drogati dal culto del bello, dell’apparenza plastificata, di involucri piuttosto che di contenuti. E soprattutto di dualismi separati da muri ideologici che ci fanno perdere il gusto della totalità, della diversità.

Lo sport come arte, e il calcio in senso stretto, non può prescindere dal gesto tecnico che lo rende icona di perfezione e bellezza, di stile, tracciando nuove vie persino nel campo della biomeccanica. Ma non dimentichiamoci dell’altro lato, quello oscuro della luna come cantavano i Pink Floyd (concept album epocale dove il tema di fondo era appunto la pazzia…), dove anche il gesto sbilenco, ma più ampiamente parlando l’errore, non possono essere esclusi come reietti.

Il calcio vive di meravigliosi strafalcioni che hanno dato origine a dei capolavori, e la sua leggenda è stata sovralimentata da imprese (sic) e personaggi che hanno contribuito non poco all’oleografia del gioco più bello del mondo.

I parrucconi della FIFA, burocrati di una disciplina che non li ha mai visti come primattori sul terreno di gioco, vogliono a rigor di statistica cambiare la nostra percezione visiva del gioco, come se quello che osserviamo, ma soprattutto quello che i 22 in campo sentono fisicamente sulla propria pelle, non valesse nulla.

Andatelo a dire ad Adrian Semper, portiere della Dinamo Zagabria, uccellato da una punizione rocambolesca di Dani Alves. Per le statistiche gol del brasiliano, ma Semper non può non aver provato un senso di frustrazione per quella deviazione alla fine decisiva. E il tabellino magari ti assolve, il cuore no.
Ma ormai, in un calcio ormai tendente all’apparente e ovattata perfezione, si tende a sgravare il colpevole di fantozziana sfortuna da ulteriori responsabilità. Gran punizione di Dani Alves! Semper, sfortunato complice ma a norma di regolamento statisticamente assolto….

Nella ormai secolare storia del calcio l’autorete era diventata parte della recita domenicale, come un assolo improvviso da eseguire a soggetto, ma sempre parte della narrazione.

Un’opera d’arte futurista, capace anche di seminare tragedie non soltanto sportive. Vi ricordate Andrès Escobar, simbolo di una Colombia ben lontana dai propositi di pace odierni? Il suo autogol contro gli USA è costato molto di più che una inopinata eliminazione per i “cafeteros”. Con i parametri attuali a rigor di statistica non sarebbe cambiato nulla. Ma la percezione visiva del tempo esasperava l’errore, trascurando quasi del tutto il complice; adesso si sono ribaltati i ruoli, con Caligiuri “a mettere in mezzo un pallone velenoso” che avrebbe costretto il leggendario numero 2 colombiano all’intervento disperato per anticipare uno Stewart altrimenti solo davanti al portiere. Un’assoluzione quasi beffarda.

Occorre ricordare a chi regolamenta il gioco, che l’errore è propedeutico nel miglioramento di un individuo, la cui crescita non può prescindere da tonfi clamorosi. Disumanizzare l’atleta per farlo regredire a fabbrica di fredde cifre, stile Major League di baseball, sarebbe come fagocitarlo all’interno di un sistema malato e pericoloso.
Rinnegare l’errore quasi del tutto, o comunque confinarlo in parametri spesso irreali, potrebbe creare delle forme mentali di rifiuto del fallimento, del rischio, per una rassicurante e banalissima dimensione di vita.
Ma nel calcio, come nella vista, di rigori a porta vuota non se ne ravvede l’esistenza

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