Genoa e Sampdoria pronte alla sfida

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Sampdoria

Spazio al derby della Lanterna, blucerchiati e rossoblu in campo per i tre punti e non solo

ATTESA FEBBRILE NEL CAPOLUOGO LIGURE PER UN DERBY CHE SA RACCONTARE SEMPRE NUOVE STORIE

“Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi che abbiamo visto Genova…” canta Paolo Conte, chansonnier astigiano ma pilastro della scuola cantautorale genovese, nel descrivere una città e un popolo unici nel loro genere.

Anche nel calcio, essere genovesi significa viverlo a due facce, che cercano da 70 anni di prevalere l’una sull’altra, come quei conflitti esistenziali tipici degli spiriti più tormentati.
Due anime, una tradizionale e austera, quella genoana, e un’altra più rock e più popolare, quella sampdoriana, che sabato pomeriggio a Marassi si scontreranno in un derby che sarà sicuramente prodigo di nuove storie da raccontare, di nuove emozioni da vivere sulla pelle.

Un derby, che nell’immaginario collettivo del nostro calcio, ha rappresentato un’entità particolare fin dagli inizi, quando nacque la Sampdoria dalla fusione di due squadre – Andrea Doria e Sampierdarenese – in una Genova devastata dalla guerra, ma vogliosa di ricominciare daccapo, anche attraverso il calcio.

Già, il calcio. La storia ufficiale vuole che sia nato proprio in quel lembo di terra schiaccato fra “un mare scuro che si muove anche di notte…” e i monti, fedeli guardiani di quella che fu – e per qualcuno è ancora – la Superba.
Quando fu fondato il Genoa, nel 1893, di fatto nacque il calcio nella sua versione ufficiale. E poi quelle maglie rossoblu, così antiche, così onuste di storia (i doriani direbbero preistoria…) che hanno reso il Vecchio Balordo, per dirla alla Gianni Brera, un ‘icona da incastonare nell’Unesco del calcio, assieme ad altri club seminali nella divulgazione del gioco come Sheffield United e Recreativo Huelva.
Una storia, quella genoana, carica di sofferenze sul campo, con una tifoseria calda come poche e sempre pronta a sostenere la squadra anche nei periodi più oscuri, collimati spesso con la netta superiorità cittadina dei cugini blucerchiati, fardello questo ben più pesante da sostenere rispetto alla Serie C di recente memoria.
Eppure la Gradinata Nord scalpita, accompagnata dalle note del suo figlio più illustre, quel Fabrizio De Andrè che si è sempre rifiutato di scrivere una canzone per il suo amato Genoa, proprio perchè si trattava di un amore troppo coinvolgente per poterne scrivere con razionalità.
Una Gradinata pronta a rivendicare i quarti di nobiltà originari di un club che ha fatto la storia del nostro calcio, coi suoi nove scudetti (l’ultimo nel ’24) e le sue leggende, avvolte da una patina color seppia e quindi ancora più onuste di gloria.
Una tifoseria che, a fronte del netto vantaggio in termini di superiorità cittadina che gode la Samp, non si rassegna e rimarca una presunta maggiore genovesità del loro dna, pur essendo stata fondata da inglesi come il nome evidenza; e quel lato british nonostante tutto lo accolgono volentieri, cantando “You’ll never walk alone” prima di ogni partita, mentre il nome di Spensley – uno dei padri fondatori e primo capitano rossoblù – figura addirittura in una via che costeggia il Ferraris.

E proprio il più inglese dei nostri stadi omaggia anche la figura di quel Paolo Mantovani che ha reso la Sampdoria da realtà simpatica e ammazzagrandi del nostro calcio, una squadra di livello mondiale, oggi si direbbe “mainstream”.
Con quei “colori magici che fanno venire i brividi” come si sente cantare nella bolgia della Sud, uno spettacolo unico nel suo genere, nell’omaggiare quella che più di un organo di stampa ha votato come una delle maglie più belle del mondo – per il Guerin Sportivo la più bella a livello di club, per Forfortwo seconda solo al Boca, guardacaso altra compagine “zeneize”.
Una Samp la cui musica è negli ultimi anni un po’ dissonante, con campionati condotti in sofferenza, in quella parte destra della classifica che ai tempi d’oro non veniva neanche presa in considerazione, se non per dileggiare i cugini.
Un presidente a dir poco maccheronico, poco fedele al trend di illustri predecessori come Alberto Ravano, che ha creato una prima grande Samp, quella del quarto posto, l’immenso Paolo Mantovani, che l’ha resa grande vincendo quasi tutto e quel quasi (leggasi Coppa dei Campioni) lo ha perso in finale, il mai troppo rimpianto Riccardo Garrone, che l’ha fatta risorgere dalle proprie ceneri riportandola dai bassifondi della cadetteria all’Europa che conta.
Ma resta l’immagine di un club che ha esportato la Genova a livello internazionale, con quattro finali europee consecutive, con uno scudetto unico nel suo genere, per come è stato “vinto, visto e vissuto”; una squadra che si è presentata dal Santo Padre con Vialli, Cerezo e Ivano Bonetti tinti di biondo – incredibile per la serie A dell’epoca, dove anche i pochi tatuaggi venivano mostrati con pudore e le trecce di Gullit erano un unicum – che ha dimostrato come si possa vincere in allegria, senza pressioni, in un contesto molto familistico come quello costruito negli anni dal suo immenso presidente.
Alla faccia della “maccaia”, quel clima tipico del capoluogo ligure, che secondo l’immenso Gioanbrerafucarlo, tifosissimo rossoblu, è stato la causa della scarsa propensione alle vittorie della Superba del calcio rispetto ad altre realtà molto più opulente come Milano e Torino.

Marassi è pronta ad accogliere il suo derby, uno dei più belli e sentiti del panorama calcistico mondiale, con le sue stupende coreografie, i suoi sfottò, ma soprattutto i colori di una Genova che si riscopre sempre romantica, antica e moderna insieme, due aspetti che convivono senza fondersi perchè in fondo a Genova è bello anche così.