Il Genoa nelle rime di Bresh, tra l’Oro Blu del Mediterraneo
C’è una sottile e implacabile magia nella musica di Genova, una scia salmastra di poesia e disincanto che scivola di voce in voce, da generazione a generazione. È una città che ha fatto della malinconia una forma d’arte, della lotta interiore un canto perpetuo. In questo solco si inserisce Bresh, moderno menestrello della Superba, capace di traghettare le inquietudini di un’epoca nel linguaggio del presente. Se Fabrizio De André raccontava i derelitti e i santi dell’umanità con una lirica impietosa e struggente, Bresh tesse la sua trama sulle fratture e sulle passioni di un’anima giovane, tra amore e identità, tra radici e vertigine.
“Guasto d’amore” non è soltanto una canzone, è una dichiarazione di poetica. Il testo si muove con l’andamento di una confessione intima, in cui il sentimento si fa ossessione, in cui il senso di appartenenza a un’idea – o a una bandiera – diviene il metro con cui misurare il proprio posto nel mondo. Qui sta il legame inscindibile con la tradizione cantautorale genovese: quella capacità di parlare dell’individuo raccontando il collettivo, quella commistione tra vita e arte che fa della musica non un semplice intrattenimento, ma un’operazione quasi filosofica.
Genova, nel tempo, ha dato i natali a un filone musicale che si è nutrito di letteratura e malinconia, da Luigi Tenco a Bruno Lauzi, da Gino Paoli a Ivano Fossati. Bresh, pur immerso in una scena contemporanea segnata dall’ibridazione tra rap e pop, non si sottrae a questa eredità. Nei suoi testi la città è una presenza costante, evocata con la stessa sacralità con cui De André narrava di una Genova in controluce, sempre vista attraverso la nebbia del tempo e del ricordo. Ma se il Faber cercava la verità tra i vicoli, tra le strade impolverate di storie dimenticate, Bresh la rincorre nei moti di un cuore giovane, nella fibrillazione del presente.
Non è casuale che il calcio, e in particolare il Genoa, diventi il simbolo del suo rapporto con l’esistenza. La passione calcistica, come l’amore, è irrazionale e totalizzante, capace di definire un’identità al di là della logica. “Ho un guasto d’amore, non riesco a star bene”, canta, e nel farlo non parla solo dei rossoblù, ma della fragilità stessa del sentire umano. Come nelle migliori tradizioni poetiche, l’oggetto della devozione diventa metafora dell’esistenza: il pallone come battito del cuore, la squadra come un’amante capricciosa, la vittoria e la sconfitta come parabole di vita.
C’è un’urgenza emotiva nel canto di Bresh, la stessa che attraversava il grido soffocato di Tenco, l’amore bruciato di Lauzi, il disincanto dolceamaro di Fossati. La sua musica è il naturale proseguimento di una linea narrativa che, da sempre, si muove sulla cresta dell’inquietudine. Ma è anche, al tempo stesso, profondamente contemporanea: usa le metriche spezzate del rap, gioca con la leggerezza del pop, senza mai tradire la profondità di un’anima che appartiene, per vocazione, alla scuola dei grandi cantautori.
E ora, come un nuovo capitolo di questo percorso interiore, arriva Mediterraneo, il nuovo disco in uscita venerdì 6 giugno: un viaggio che inizia “da piccolo come un alchimista”, mischiando immaginazione e istinto per creare un pianeta proprio, da far girare “come un rullo gira sotto i piedi dell’equilibrista”. È il racconto di chi ha provato a modellare il mondo a propria immagine e somiglianza, per poi scoprire che, prima o poi, “sulla terra bisogna tornare, a rischio di cadere”. Ma è proprio lì, in quella scelta necessaria e fragile, che si intravede la libertà: “nel mio mare preferito”, dove anche la solitudine può farsi compagna.
Non sappiamo se la storia collocherà Bresh tra i grandi poeti della musica italiana, ma una cosa è certa: nella sua voce si respira ancora quella magia ineffabile che ha fatto di Genova non solo una città, ma un’idea, un suono, una malinconia eterna. Forse è vero: senza una bandiera non sapremmo che vento tira, ma è proprio nel vento, nella sua instabilità, che si nasconde la vera poesia.