Le grandi Incompiute, il Brasile del 1982

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Brasile 1982

Chiedi chi era il Brasile di Santana

La terza tappa del nostro viaggio alla riscoperta delle squadre di calcio nazionali che “potevano, ma che non sono state” ci porta in Spagna nel Mondiale del 1982. Andiamo a scoprire il Brasile di Telê Santana, favorita numero uno della vigilia, ma che vide le semifinali e la finale dal divano di casa.

Spagna 1982, Italia Campione del Mondo

…Scirea, Bergomi, Gentile…è finito! Campioni del Mondo, campioni del Mondo, campioni del Mondo”. Questi sono gli ultimi sette secondi della telecronaca di Nando Martellini della finale del Mondiale spagnolo del 1982 che vide l’Italia vincere il suo terzo titolo mondiale battendo la Germania Ovest per 3 a 1. La nostra Nazionale aveva vinto un Mondiale incredibile non tanto perché non partiva con tutti i pronostici, ma per lo strascico di polemiche che si portava dietro: il post Totonero, la stampa contro il Commissario Tecnico Bearzot, Roberto Pruzzo,  capocannoniere del campionato, a casa e Paolo Rossi tornato a giocare solo ad aprile dopo la squalifica in Spagna, il silenzio stampa.

Fu però il Mondiale di Paolo Rossi, diventato “Pablito, capocannoniere del torneo con sei reti, del quarantenne capitano Zoff, dell’arcigna coppia difensiva Scirea-Gentile, delle galoppate sulla fascia di Bruno Conti e la saggezza tattica di Antognoni. Per non parlare del tanto contestato Bearzot, odiato prima dell’inizio della manifestazione e portato in trionfo da tutti dopo la finale del “Bernabeu”.

Tante altre Selezioni erano candidate alla vittoria finale, una su tutte quella del Brasile. Il motivo? Tecnicamente e tatticamente, i verde-oro erano la squadra più forte di tutte le ventiquattro squadre allora partecipanti. Ma non solo: in molto affermarono che quella squadra era più forte di quella che vinse il Mondiale svedese del 1958 e quello messicano del 1970. Un concentrato di talento e poesia calcistica che si pensò non dovesse avere rivali. La Seleção non solo non arrivò in finale, ma neanche in semifinale: si fermò nella seconda fase a gironi. E chi eliminò i verde-oro da quel Mondiale? L’Italia. O meglio, Paolo Rossi con una tripletta.

Il Brasile che scese in campo in quel Mondiale fu la chiara dimostrazione che per vincere non serve essere forti tecnicamente o tatticamente. O meglio, sono cose che servono, ma più di ogni altra cosa si deve essere umili, concentrati e carichi di “cazzimma”. Cosa che Zoff e compagni avevano da vendere.

Vediamo nel dettaglio quella Nazionale tanto bella quanto, appunto, incompiuta.

Brasile in Spagna per vincere. Punto.

Il Brasile arrivò in Spagna reduce da due terzi posti consecutivi: quello del Mondiale argentino e quello della Copa America dell’anno successivo. Chiara era la voglia di tornare a vincere un trofeo internazionale dopo anni di magra. La squadra era forte e puntava a diventare tetracampeón.

Il Brasile era galattico ed in primavera era “calato” in Europa per una serie di amichevoli con squadre che avrebbero preso parte alla kermesse spagnola. Le prestazioni ed i risultati furono sensazionali: 3 a 1 alla Francia di Platini, 2 a 1 alla Germania ovest di Rummenigge e 1 a 0 all’Inghilterra di Keegan.

Il Brasile praticava un tipo di gioco offensivo, non considerando la fase difensiva. Un classico della storia del calcio brasileiro: dalla cintola in su un qualcosa di incredibile, dalla cintola in giù…aiuto! Però a dire il vero quel Brasile prendeva in media un gol a partita, ma ne segnava sempre uno (o più) in più dell’avversario. E per quella squadra segnare era la cosa più normale di tutte.

La squadra del CT Telê Santana, da due anni sulla panchina verde-oro, si qualificò al Mondiale spagnolo vincendo il proprio girone superando nettamente Bolivia e Venezuela. In quattro partite, Sócrates e compagni fecero l’en plein, conquistando otto punti in quattro partite, con 11 gol fatti e solo due subiti. Il Sudamerica inviò nello stato iberico anche l’Argentina di Passarella e Maradona campione in carica, il Perù di Cubillas e Barbadillo ed il Cile di Carlos Caszely ed Elías Figueroa.

A quel Mondiale non si qualificarono i Paesi Bassi, reduci da due secondi posti mondiali, ma parteciparono le matricole Kuwait, El Salvador, Honduras, Camerun e Nuova Zelanda. Tra le quotate per la vittoria le solite Argentina, la Germania Ovest, l’Inghilterra, Italia (anche se era più forte quella del 1978), la Francia e il Brasile.

Il Brasile fu inserito in un girone morbido con URSS, Scozia e Nuova Zelanda. La squadra di Santana vinse, ovviamente, il girone, davanti ai sovietici che chiusero a pari punti con la Scozia e la Nuova Zelanda ultima. I brasiliani vinsero 2-1 (URSS), 4-1 (Scozia) e 4-0 (Nuova Zelanda). Mattatore del girone fu Zico con tre reti, seguito da Éder e Falcão con due e Sócrates, Oscar e Serginho con una rete. Solo l’Inghilterra di Keevin Keegan aveva fatto tre su tre.

L’undici base di quel Brasile prevedeva Valdir Peres in porta, la difesa era a quattro e vedeva due discreti centrali (Luizinho e Oscar) e due terzini con propensione offensiva (Júnior e Leandro, con il futuro granata vero uomo jolly); il centrocampo vedeva un centrale come Cerezo affiancato da Falcão con mezzali il capitano Sócrates ed Éder, uno che con il sinistro faceva quello che voleva; davanti il magico Zico e lo scadente Serginho.

Quel Brasile era un’altra roba, un altro sport. Il motivo? Lo stile di gioco. Quel Brasile praticava un tipo di calcio molto diverso rispetto agli avversari, non tanto come modulo (4-4-2 classico), ma come voglia: i giocatori brasiliani quando giocavano era come se stessero…bailando. Erano una squadra ricca di individualità portentose caratterizzate da dribbling, possesso palla e colpi di tacco efficaci che resero grande il futebol bailado.

Accedettero alla seconda fase a gironi le prime due classificate di ogni girone: Polonia e Italia (per un solo gol segnato in più rispetto al Camerun); Germania Ovest e Austria (autrici uno dei più brutti “biscotti” della storia del calcio); Belgio e Argentina; Inghilterra e Francia; Irlanda del Nord e Spagna; Brasile e Unione sovietica come detto precedentemente.

Il tabellone prevedeva il sorteggio di altri quattro gironi da tre squadre ciascuno: le singole vincitrici di ogni girone si sarebbero qualificate per le semifinali.

Dei quattro gironi, tre furono equilibrati (Polonia, URSS, Belgio; Germania Ovest, Inghilterra e Spagna; Francia, Austria, Irlanda del Nord) mentre uno fu veramente tosto. Beh, un girone che metteva di fronte sei Coppe del Mondo come doveva essere? Il girone numero 3 era composto dal Brasile, dall’Argentina e dall’Italia.

5 luglio 1982, la disfatta del Brasile

Lo stadio deputato ad ospitare i match di Italia, Argentina e Brasile fu il “Sarriá” di Barcellona, il secondo stadio cittadino e teatro delle partite casalinghe dell’Espanyol. All’inizio, viste le Coppe del Mondo “sul tavolo” e l’arrivo di Maradona a Barcellona, si era pensato di far giocare il girone C al Nou Camp solo che il Belgio (assegnato al girone A con Polonia e Unione sovietica) si era rifiutato di fare inversione di stadio.

La prima partita si gioco il 29 giugno e vide l’Italia affrontare i campioni del Mondo dell’Argentina. L’Albiceleste rispetto a quattro anni prima poteva contare sull’impiego del 21enne Maradona, ma la squadra non era così forte. E gli azzurri vinsero per 2 a 1,  con reti di Tardelli e Cabrini e gol della bandiera di Passarella. Tre giorni dopo gli argentini persero malamente 3 a 1 contro il Brasile e salutarono anzitempo la manifestazione: Zico, Serginho e Júnior (con Diaz a limitare i danni) mandarono a casa anticipatamente i campioni del Mondo in carica. Il 5 luglio si sarebbe deciso chi tra Italia e Brasile avrebbe avuto l’accesso alle semifinali.

Al Brasile bastava un solo pareggio, con qualsiasi risultato, per raggiungere in semifinale la Polonia di Lato e Boniek, mentre all’Italia serviva assolutamente vincere, con qualsiasi scarto.

Tutti avevano pronosticato il passaggio del turno dei brasiliani. Ed invece al “Sarriá” successe un vero miracolo del calcio: l’Italia sconfisse il Brasile per 3 a 2 estromettendolo dalla corsa al titolo.

La torcida brasiliana fu sensazionale quel pomeriggio: spalti pieni, bandiere verde-oro che si muovevano a ritmo di samba, gente che ballava e tifava. Insomma per Zoff e compagni il caldo non era solo nell’aria, ma sugli spalti e in campo.

Lo stadio “Sarriá” di Barcellona (abbattuto nel 1997) è stato il centro del Mondo quel pomeriggio di inizio luglio. Arbitro dell’incontro fu designato l’israeliano Abraham Klein. Erano presenti sugli spalti almeno 44 mila spettatori.

Dopo cinque minuti passò in vantaggio l’Italia con Paolo Rossi. L’attaccante toscano, fino a quel momento non pervenuto, segnò la sua prima rete mondiale: Conti verso Cabrini sulla sinistra, cross del difensore juventino e rete di testa del numero 20 di Prato.

Sette minuti dopo ci pensò Sócrates a riequilibrare il match: invenzione di Zico che mise una gran palla per il suo capitano. In area l’allora giocatore del Corinthians era sfuggito alla marcatura di Scirea e di destro in area batté Zoff. Per l’ennesima volta, Zico aveva messo il pallone dove voleva: questa volta sui piedi del Dotour.

L’Italia era in forma e con la mente libera da pensieri: se fosse uscita, sarebbe uscita per mano di una squadra che avrebbe vinto il Mondiale. E invece al 25′ l’Italia raddoppiò: fu ancora Rossi a segnare, sfruttando un errore difensivo brasiliano. La partita era equilibrata e gli azzurri andarono al riposo in vantaggio.

Prima della fine del primo tempo l’epicità toccò lo zenith: fuori Collovati per infortunio, dentro il 18enne baffuto Giuseppe Bergomi che prima di allora aveva giocato solo metà ripresa nell’amichevole contro la Germania est dell’aprile precedente; la maglia strappata di Zico per mano di Gentile, a significare quanto il difensore italiano marcasse ‘o galinho.

Nell’aria si stava respirando l’aria dell’impresa, ma al minuto 69′ ecco la doccia fredda: Paulo Roberto Falcão, da due stagioni in forza alla Roma, segnò da fuori area un gran gol di sinistro. Palese l’errore della difesa azzurra con l’aggiunta di uno dei pochi gol di sinistro dell’”ottavo re di Roma”. Quel gol avrebbe ammazzato psicologicamente qualsiasi avversario, ma non l’Italia.

La ripresa fu tutta di marca brasiliana: fu un vero assedio, ma qualcosa in quella squadra si era bloccato. Non era più così fantastica come era stata fino all’inizio del primo tempo.

E Rossi al 74′ segnò il 3 a 2: corner da sinistra di Conti in area, palla “spizzata” di testa da Scirea per Tardelli che tirò in porta. Davanti a Valdir Peres ci furono contemporaneamente Graziani e Rossi. L’attaccante della Roma “lisciò” e la palla fu toccata di destro di Rossi che insaccò.

Pareva fatta ma Bearzot dalla panchina espresse calma e concentrazione perché ai brasiliani bastava un solo gol per qualificarsi. E l’occasione arrivò al minuto 89′.

Punizione da sinistra di Éder. La palla calciata dall’attaccante dell’Atlético Mineiro entrò in area e Oscar, libero da marcature, colpì di testa verso il basso. La sfera arrivò a Zoff che parò. La palla si attaccò ai guanti del capitano azzurro: se l’avesse deviata sarebbe potuta finire sui piedi di un avversario che avrebbe segnato senza dubbio. Ma il numero uno di Mariano del Friuli impedì il gol del pareggio, parando a pochissimi centimetri dalla riga di porta. Era il destino che in semifinale, al Nou Camp, ci sarebbe dovuta andare l’Italia e non il Brasile. Dopo un minuto di recupero, Klein pose fine alle ostilità: Italia avanti e Brasile a casa, con l’imbarazzo di dover disdire la prenotazione in hotel visto che pensavano di sconfiggere gli azzurri e di rimanere in Spagna fino all’11 luglio, giorno della finale.

Quella partita fu chiamata in due modi: per la stampa italiana fu “il miracolo del Sarria”, per quella carioca “la tragedia del Sarriá”. E proprio con questo nome è passata alla storia.

Una sorta di “Maracanazo 2.0”: la squadra al ritorno in Patria fu contestata e Santana fu esautorato dall’incarico. Il giocatore più preso di mira fu Valdir Peres, accusato di non essere stato all’altezza della situazione e da allora non fu mai più convocato in Nazionale. Gli anni Ottanta-Novanta videro però una nidiata di estremi difensori brasiliani che lenirono la mancanza di portieri all’altezza: due su tutti Claudio Taffarel e Nelson Dida, che giocarono anche in Italia (Parma e Reggiana il primo, Milan il secondo).

Telê Santana, bastava un pareggio

Telê Santana è stato l’emblema di quegli allenatori che “potevano che ma non ci sono riusciti”.  CT del Brasile dal 1980, dopo aver allenato Fluminense (per lui anche nove stagioni da giocatore con il Tricolor carioca), Atlético Mineiro, Gremio e Palmeiras, rimane nell’immaginario collettivo come il tecnico che ha fallito miseramente il Mondiale spagnolo nonostante allenasse una delle squadre nazionali più forti della storia del calcio.

Santana pagò il fatto di aver cercato l’estetica massima invece di cercare di badare a contenere l’Italia. Quel 5 luglio bastava un pareggio a Sócrates e soci per accedere alle semifinali visto che la differenza reti era in favore del Brasile. E invece no: squadra a trazione anteriore, fantasia al potere e Brasile a casa. La partita del “Sarriá” è paragonabile a quella del Maracana del 16 luglio 1950 contro l’Uruguay e quella della semifinale di Brasile 2014, con la tremenda sconfitta per 7 a 1 dei verde-oro contro la Germania.

Santana al ritorno in casa fece mea culpa e si dimise dalla carica di allenatore. Tra il 1982  ed il 1985, il Brasile si affidò a Carlos Alberto Parreira, Edu ed Evaristo de Macedo e Santana fu richiamato per le qualificazioni al Mondiale messicano del 1986, dove la Seleção uscì nei quarti di finale ai rigori contro la Francia. Il Brasile dovette attendere il 1994 per vincere un altro campionato del Mondo: ironia della sorte, il Brasile batté l’Italia ai rigori, nella prima partita successiva a Spagna 1982.

Le soddisfazioni da allenatore Santana se le prese da allenatore di club, quando con il San Paolo vinse ben nove titoli tra nazionali ed internazionali tra il 1990 e il 1996, tra cui due Cope Libertadores e due Coppe Intercontinentali consecutive.

Nonostante tutto, Santana è ricordato come un allenatore che è stato punito per  aver sopravvalutato gli avversari e per aver voluto strafare: va bene che in rosa aveva dei funamboli, ma alcune volte sarebbe meglio pensare più al risultato piuttosto che a raggiungere il massimo dell’estetismo calcistico.

Il giocatore fondamentale: Arthur Antunes Coimbra detto Zico

L’estate 1980 per il calcio italiano fu il momento della svolta: dopo quattordici anni si decise di riaprire le porte ai giocatori stranieri. Il motivo della chiusura di queste era stato dovuto alla fallimentare spedizione della nostra Nazionale al Mondiale inglese del 1966, chiusosi con la figuraccia mondiale della sconfitta contro la Corea del Nord. Dopo di allora, si decise di non far più venire giocatori stranieri nella nostra Serie A per fare largo ai giovani giocatori nostrani in maniera tale da farli maturare dando loro più spazio nelle prime squadre.

Fatto sta che da allora, fino all’estate 1984, il nostro campionato vide approdare campioni di fama indiscussa. In quel periodo molte squadre, anche di livello medio, potevano permettersi giocatori di caratura internazionale. Una di queste è stata l’Udinese che nell’estate 1983 fece un colpo di mercato clamoroso, portando in Italia quello che allora era considerato il giocatore più forte del Mondo, il brasiliano Arthur Antunes Coimbra, noto come Zico. La fama di Zico aveva toccato l’apice proprio durante il Mondiale spagnolo del 1982, punta di diamante della Nazionale del suo Paese. L’attaccante in patria era considerato l’erede designato di Pelé tanto che fu definito, visti i tratti somatici, “Pelé bianco”: se Johan Cruijff era il numero 1 in Europa, Zico lo era in Sudamerica. Zico, classe 1953, debuttò con la maglia del Flamengo a venti anni indossando il numero per eccellenza dei fantasista, il “10”.  Rimase in maglia rubro-negro fino al 1983, segnando 346 reti e vincendo molto: sette campionati carioca, quattro campionati brasiliani e, nel 1981, il double Copa Libertadores – Coppa Intercontinentale.

Nonostante l’uscita anticipata, Zico (allora in forza al Flamengo) fece vedere numeri di grande classe, segnò quattro reti e tutti hanno ancora nella mente la lotta in campo con Claudio Gentile e la maglia numero 10 verde-oro strappata dal difensore della Juventus.

Gli anni Settanta – primi Ottanta per il galinho furono ricchi di successi, anche in Nazionale: a parte il bronzo nella Copa America 1979, il Brasile grazie a Zico, il 12 maggio 1981, sconfisse l’Inghilterra a Wembley dopo un’attesa lunga 60 anni.

Zico nell’estate 1983 fu coinvolto nel trasferimento del secolo: l’asso di Quintino aveva trent’anni, la sua carriera era al top e decise di lasciare per la prima volta il Brasile per provare l’ebbrezza del calcio europeo. Sulle sue tracce si mossero tutti i top team continentali, ma declinò tutte le offerte accasandosi nella tranquilla provincia italiana, a Udine.

Il passaggio di Zico alla compagine allora presieduta da Lamberto Mazza fu molto sofferto e rischiò di naufragare. Zico passò al club friulano per 6 miliardi di lire, una cifra alta ma non altissima (Maradona passò al Napoli l’anno successivo per 13 miliardi, ad esempio), mai si pensò che una provinciale potesse avere tutto quel denaro. Al Flamengo l’Udinese pagò solo il 60% dell’ammontare, mentre la parte restante fu pareggiata tramite una società creata ad hoc, la Grouping Limited, che avrebbe unito tutte le quote derivanti dagli sponsor per tutelare i diritti d’immagine dell’atleta.

Il 15 giugno si passò alle firme sul contratto dell’operazione di mercato più clamorosa, e spregiudicata, del mondo “pallonaro” italiano, ma la FIGC bloccò tutti i trasferimenti dall’estero compiuti dopo il 13 giugno, poiché la Federcalcio temeva che potesse esserci del losco nell’operazione, come in tutte quelle che coinvolsero giocatori brasiliani. L’operazione Zico venne bloccata, come venne bloccato il passaggio di Toninho Cerezo alla Roma dall’Atlético Mineiro.

Alla fine, viste le proteste, la FIGC il 22 luglio, dopo vari tentennamenti, stop e riprese, acconsentì al passaggio di Zico e di Cerezo ad Udinese e Roma. La piazza friulana, fino a cinque stagioni prima in Serie B, andò in visibilio per il suo nuovo giocatore ed in poche settimane furono staccati oltre 26mila abbonamenti, un record per il club bianconero, mai più toccato negli anni a venire, neanche quando divenne un habitué delle coppe europee.

Contribuì ad accelerare la riuscita dell’operazione anche la manifestazione che fecero i tifosi bianconeri quando scesero in piazza affinché Zico potesse venire a giocare per loro. Questi minacciarono anche una scissione territoriale: è ancora oggi celebre la scritta sui muri e lo striscione “O Zico o Austria” in cui si palesava un passaggio del Friuli alla vicina Austria se il Galinho non fosse arrivato. Non era uno scherzo, ma una vera e propria minaccia.

Zico rimase all’Udinese due stagioni (1983/84; 1984/1985), giocando 49 partite (la Serie A allora era a sedici squadre), segnando complessivamente 27 reti: durante la prima stagione siglò 19 reti in campionato, ad una sola marcatura dal capocannoniere Michel Platini.

Zico iniziò a far capire a tutta Italia chi fosse: prime otto partite, otto reti. Il suo marchio di fabbrica erano le punizioni, ma anche il dribbling e la corsa erano la sua forza. Tutto questo non bastò a far qualificare l’Udinese per la prima volta alle coppe europee, in quanto in primavera si invertì la marcia del girone di andata. E l’assenza in campo del giocatore (tra infortuni e squalifiche) pesò come un macigno sull’andamento del campionato e quando lui non giocava la squadra non vinceva e scendeva piano piano in classifica, per riprendersi solo con il suo ritorno.

La stagione successiva vide l’Udinese con in attacco ancora Zico, ma le ambizioni della squadra erano ridimensionate a causa di molte cessioni, una campagna-acquisti non all’altezza e le incomprensioni tra il presidente Mazza e il direttore generale dal Cin, unito al cambio tecnico fra Enzo Ferrari e Luis Vinicio. Il fantasista di Rio era il leader incontrastato della squadra, ma dal gennaio 1985 qualcosa cambiò in peggio: un brutto infortunio colpì Zico e il giocatore non concluse la stagione, tornandosene in Brasile anche a causa di alcuni problemi con la giustizia brasiliana per una presunta accusa di costituzione illecita di capitali che lo vide condannato a otto mesi di reclusione e al pagamento di una multa miliardaria. Al termine della stagione, la squadra terminò il campionato al dodicesimo posto (ad ex equo con l’Avellino) a tre punti dalla retrocessione.

Eppure nonostante l’addio anticipato, ancora oggi a Udine la parola “Zico” significa dire un nome impegnativo cui necessita portare rispetto. Tutta la Regione, dopo il terremoto del 1976, aveva bisogno di un qualcosa che portasse serenità e felicità e l’arrivo di un top player come lui servì al territorio per riprendersi alla grande. Unito poi al fatto che il giocatore era una persona umile che metteva il lavoro davanti a ogni cosa. E lo stesso attaccante di Rio non ripudiò mai la sua scelta italiana, prendendola come una sfida: facile vincere in una grande squadra ed essere uno dei tanti, meglio cercare di vincere in una piccola squadra ed essere ricordati per aver cercato di farla diventare grande. Zico però aveva 32 anni, ma aveva ancora tanto da dare al calcio e in più c’erano da preparare i Mondiali messicani. Zico tornò nel “suo” Flamengo e nella sua seconda parentesi con la maglia rosso-nera giocò altre quattro stagioni, segnando 24 reti, vincendo un campionato brasiliano nel 1987, ma subendo un grave infortunio. Poi come tanti altri calciatori si trasferì in Giappone un po’ a svernare, un po’ a riempire gli stadi ed un po’ a fare ancora il fenomeno.

Nel 1994 Zico decise di ritirarsi: a 41 anni era ora di pensare al futuro e decise di appendere le scarpette al chiodo, mentre nel 1989 diede addio alla maglia verde-oro e al calcio giocato.

Zico partecipò a tre Mondiali consecutivi (terzo posto in Argentina) e ad un’edizione della Copa America, che vide il Brasile classificarsi al terzo posto. A oggi, Zico è il quarto marcatore della storia della Seleção con 53 reti. La sua ultima partita in Nazionale si tenne nel suo “Friuli” e fu Brasile-Resto del Mondo, giocata il 27 marzo 1989. La prima partita di Zico in Nazionale risale al 3 marzo 1975 contro l’Uruguay, debuttando con gol.

Zico era un maestro delle punizioni: ha segnato da palla inattiva ad ogni latitudine, facendo anche applaudire gli avversari al momento del gol. Zico è stato un eroe universale del calcio, amato in ogni dove e portatore sano della fantasia prestata al calcio.

Cosa rimane di quella squadra?

Quel Brasile è stato epico, bello ed incredibile. Con quella squadra, Santana sarebbe salito sull’Olimpo dei grandi allenatori del suo Paese alla pari di Vicente Feola, Aymoré Moreira e Mário Zagallo. Invece per la sua smania di offensivismo non capì che per una volta il Brasile doveva giocare…all’italiana: squadra difensiva e poi attaccare negli spazi gli azzurri. Invece così non fu: giocare per vincere e far vedere di essere la squadra più forte della storia. E questo è stato il peccato capitale di quella squadra: specchiarsi troppo ed essere castigata dalla “cenerentola” della situazione.

Il Brasile tornò ad essere il Brasile solo molto tempo dopo: campione del Mondo nel 1994 mentre in Copa America la vittoria arrivò nel 1989 vincendo il girone finale.

Zico anni dopo disse che se il Brasile avesse battuto l’Italia avrebbe vinto il Mondiale e scritto una pagina nuova del calcio mondiale, mentre la vittoria dell’Italia portò allo sviluppo di un calcio difensivo e banale. Zico non aveva capito la lezione: meno altezzosità, più concretezza. Ovvero i due valori che hanno contraddistinto l’Italia in Spagna.

E proprio la nostra Serie A ha avuto l’onore, a partire dalla stagione 1980/1981, di vedere molti di quei campioni presenti in Spagna, rendendo il nostro campionato allora il migliore del Mondo: da Toninho Cerezo (Roma e Sampdoria) a Júnior (Torino e Pescara); Sócrates (Fiorentina) a Zico (Udinese); da Paulo Roberto Falcão (Roma) a Edinho (Udinese), da Pedrinho (Catania) a Batista (Lazio e Avellino) fino a Dirceu, che vestì i colori di Verona, Napoli, Ascoli, Como e Avellino tra il 1982 ed il 1987 con una seconda tranche tra il 1989 ed il 1992 nell’allora Interregionale con Ebolitana (il cui stadio porta il suo nome dopo la sua morte) e Benevento.

Che meraviglioso, quel Brasile. Che incompiuto, quel Brasile.

La rosa del Brasile a Spagna 1982

Portieri: Valdir Peres, Paulo Sérgio, Carlos;

Difensori: Leandro, Luizinho, Oscar, Júnior, Edevaldo, Juninho Fonseca, Edinho, Pedrinho;

Centrocampisti: Paulo Isidoro, Sócrates, Falcão, Batista, Renato, Dirceu, Cerezo;

Attaccanti: Serginho, Zico, Éder, Roberto Dinamite.