Ausilio: “L’Inter è stata una grande scuola. Vissuti anche periodi difficilissimi”
Ausilio, cos’è successo quel giorno in Pro Sesto-Milan, categoria Allievi?
“Mi sono scontrato con Cudicini, che poi è diventato mio amico, e il ginocchio mi è saltato per aria: cartilagine, menisco, anche legamento. Giocavo da sempre nella Pro Sesto, ho cominciato a sette anni, e la mia carriera è finita lì. Ricordo, di quella partita, la mia disperazione e la sensibilità di Capello che allora – era la fine degli anni Ottanta – faceva il dirigente al Milan: è subito venuto negli spogliatoi a farmi coraggio”.
Com’era il calciatore Ausilio?
“Bravo. Bravino, dai. Un centrocampista non veloce ma con testa e senso della posizione. Ha presente Cambiasso? Una cosa del genere, solo un po’ peggio”.
Se vedesse oggi un Piero Ausilio, lo porterebbe all’Inter?
“Macché, l’Inter è troppo. Penso però che sarei diventato un buon professionista, diciamo da serie C, al massimo B. Avevo sedici anni e già mi allenavo con la prima squadra che era in C1. E la C1 dell’epoca era una cosa seria”.
Quasi deve dire grazie a Cudicini, insomma: senza quell’incidente la sua storia nel calcio non sarebbe stata così ricca di gioie.
“Ho ringraziato Carlo tante volte quando l’ho incontrato (sorride). Quello scontro assolutamente fortuito, casuale, per me ha cambiato il corso degli eventi in positivo. Solo che allora non lo sapevo. E soffrivo”.
Si è arreso subito all’infortunio?
“Ho lottato due anni: un intervento, poi un altro. Un calvario. Alla fine ho mollato, non mi sono nemmeno fatto mettere a posto il legamento: ce l’ho ancora rotto. Quando provavo a giocare qualche partita di calcetto, cadevo così, da solo. E allora ho detto basta: non ho più toccato il pallone”.
Quando ha deciso di fare il dirigente?
“All’inizio avevo in testa la panchina, ho fatto per due anni l’assistente dell’allenatore degli Esordienti. Volevo stare vicino al campo, solo lì mi sentivo bene. Avevo ventuno anni quando il presidente della Pro Sesto, Giuseppe Peduzzi, mi ha detto una frase che mi ha cambiato la vita”.
Quale frase?
“Mi ha detto: ci sarà sempre un allenatore migliore di te perché ti manca l’esperienza da calciatore, ma sei sveglio e potrai fare un bel percorso da dirigente. All’inizio non l’ho presa bene e me ne sono andato. Poi ho capito che aveva ragione lui. E sono tornato”.
Non ha mai smesso di studiare.
“Era l’unica condizione posta dai miei genitori: fai quello che vuoi, ma la scuola non si abbandona. Sono diventato perito elettronico, mi bastavano un diploma e il pallone. Il diploma per papà e mamma, il pallone per me. Poi, dopo l’infortunio, ho avuto quasi una folgorazione e mi sono iscritto a Giurisprudenza”.
Ha rischiato di diventare avvocato?
“Direi di no. Gli esami li ho fatti tutti rapidamente ma la tesi l’ho discussa solo nel 2004, quando avevo ormai un percorso avviato nel calcio. Quell’anno sono diventato anche direttore sportivo”.
Tesi in…?
“Criminologia. Argomento: il doping e il calcioscommesse come illecito sportivo”.
Nel calcio ha fatto di tutto.
“Alla Pro Sesto ho cominciato come responsabile organizzativo del settore giovanile assieme a Casiraghi, che invece era il responsabile tecnico. Avevo vent’anni quando ho iniziato a frequentare il calciomercato e ho fatto firmare il primo contratto a un giocatore”
Il calciomercato la affascinava o la intimoriva?
“Ero incantato: Mazzola, Braida, Giorgio Vitali, Perinetti, Rino Foschi, anche Marotta… Ero un ragazzino, li guardavo e cercavo di capire. Era tutto diverso rispetto a oggi: stavamo ciascuno nel nostro box, prendevamo gli appuntamenti. Ma ho cominciato a conoscere, a parlare, a costruire rapporti”.
Finché non l’ha chiamata l’Inter.
“Era il ‘97, Moratti mi ha chiesto di andare a fare il segretario del settore giovanile. Erano solo sei mesi di contratto, correvo un piccolo rischio ma ho accettato. Sa qual è la prima partita che ho seguito all’estero da dirigente nerazzurro? La finale di Coppa Uefa del ’98, quella del tre a zero alla Lazio. E non sono mai più venuto via da qui, crescendo in modo graduale all’interno della società”.
Non è riduttivo avere lavorato sempre e solo all’Inter?
“Ma l’Inter è stata una grande scuola, ho provato tutto. Comprese quattro proprietà profondamente diverse, perfino per nazionalità: la solidità e la competenza assoluta di Moratti, le difficoltà dell’era Thohir, le incertezze iniziali con Suning cancellate dall’arrivo di Steven Zhang. E Oaktree, adesso. Non mi pare che mi manchino le esperienze, anche se le ho vissute tutte all’Inter”.
“Il primo a coinvolgermi è stato Sandro Mazzola, che mi portava con sé al mercato a fargli da assistente. Poi ho lavorato con Oriali, con Terraneo, fino a questi ultimi anni al fianco di Marotta. Mi sono trovato bene con tutti, da tutti ho imparato. Anche se non posso negare di avere avuto un feeling speciale con Marco Branca”.
Ha portato all’Inter tanti grandi giocatori. Di quali va più fiero?
“Kovacic e Brozovic, che abbiamo scelto quando il responsabile era Branca. E poi Onana, preso gratis e venduto a 55 milioni dopo un anno. E Lautaro, Bisseck, Thuram…”.
“Mi ha aiutato molto avere lavorato con i giovani. Devi riuscire a vedere se ci sono le qualità fondamentali e se i difetti possono essere superati con l’applicazione e l’impegno sul campo. Penso appunto a Kovacic, Bisseck, anche Lautaro: in tutti loro c’erano imperfezioni, però rimediabili”.
Quali sono i difetti che non si possono cancellare?
“La mancanza di voglia di crescere, la personalità, certe caratteristiche atletiche: se mancano motore, forza, resistenza, velocità, non può arrivare ad alti livelli”.
L’operazione più difficile?
“Mercato invernale, vendo un giocatore all’estero e respiro: il periodo per la società era durissimo, faticavamo a pagare gli stipendi, quell’operazione ci avrebbe messo al sicuro. Quando stiamo per firmare mi chiama un notissimo avvocato divorzista: non può far partire il calciatore, la moglie vuole la separazione, abbiamo chiesto il ritiro del passaporto. Ero quasi disperato: e ora come ne veniamo fuori?, mi sono chiesto. Li ho chiusi in una stanza finché non hanno sistemato tutto: accordo per il divorzio e cessione del giocatore. Non so se sia stata l’operazione più difficile che ho chiuso, ma forse è stata la più importante”.
“Kvaratskhelia. Ma non ho sbagliato solo io, lo hanno offerto a tanti grandi club in Italia. Solo che noi giocavamo con il 3-5-2 e lui è un calciatore da 4-3-3, per questo non lo abbiamo preso. Sono abituato a costruire le squadre rispettando le idee dell’allenatore”.
“Giulia ha preso tutta un’altra strada, si occupa di linguaggio dei media. Niccolò con i piedi non era buono, ha smesso presto di giocare ma ha passione: vede mille partite, studia i giocatori. Quando Jashari è andato al Milan mi ha rimproverato”.
E perché?
“Mi ha detto: te l’ho consigliato quando era al Lucerna, te lo sei fatto scappare. E’ vero, me lo aveva segnalato, ma gli ho risposto: mica li possiamo prendere tutti noi quelli bravi”




