E così, dopo secoli di discussioni sul VAR, sul fuorigioco semiautomatico e sul numero di stranieri, arriva la nuova frontiera del calcio italiano: portare una partita di Serie A in Australia. Non una partita qualsiasi, ma Milan-Como, che diventa all’improvviso l’esperimento di “promozione del sistema Paese”, come l’ha definito il ministro Abodi, con quell’entusiasmo sobrio di chi sa di dover convincere un popolo che già si lamenta per le partite alle 12:30.
Si parla di “occasione di promozione”, di “internazionalizzazione”, di “mercati globali”. Parole che suonano nobili, ma che tradotte significano più o meno: «Signori, dobbiamo vendere il prodotto». E il prodotto, questa volta, non è una maglietta o un abbonamento tv: è la partita stessa, sradicata dal suo contesto, impacchettata e spedita a 14.000 chilometri di distanza, come se fosse un souvenir di lusso.
Abodi dice che è “una soluzione conveniente per le società” e “un’occasione non ripetibile per via ordinaria”. Tradotto: facciamolo una volta, giusto per vedere che succede. Ma è risaputo che in Italia le cose “straordinarie” tendono a diventare “ordinarie” con una rapidità disarmante, soprattutto se ci scappa dentro qualche milione di euro. E così, nel nome della promozione globale, ci ritroviamo con un campionato che si gioca in un fuso orario diverso, con tifosi costretti a scegliere tra l’amore per la squadra e l’ipoteca sulla casa per comprare un biglietto intercontinentale.
“Lo sport è per i tifosi”, ha detto il ministro, e nessuno osa contraddirlo. Certo, bisogna solo intendersi su quali tifosi. Quelli che vivono a Como, o quelli che passeranno davanti allo stadio di Perth per caso, incuriositi dal nome “Milan”? Perché se il principio è che il calcio appartiene a chi lo guarda, allora sarebbe carino ricordare che a San Siro e al Sinigaglia, per ora, ci sono ancora persone in carne e ossa, non ologrammi.
Ma forse il futuro è questo: il tifoso ridotto a spettatore remoto, con la birra in mano e il sonno negli occhi, mentre la Serie A diventa un reality globale, trasmesso da un continente all’altro come un talent show itinerante. Del resto, se funziona per la Formula 1, perché non provare con il pallone?
La verità è che sotto la retorica dell’apertura internazionale si nasconde l’ennesima distrazione dal problema vero: il nostro calcio è povero, indebitato, gestito da dirigenti che parlano di marketing mentre gli stadi crollano e i settori giovanili languono. E allora sì, andiamo pure in Australia, ma ricordiamoci che il problema non è dove giochiamo — è come giochiamo, e per chi.
Perché esportare un prodotto mediocre non lo rende improvvisamente eccellente. Cambia solo il pubblico. E, forse, anche il fuso orario del disincanto.
Fonte: ANSA – “Abodi: Milan-Como in Australia occasione di promozione”, 7 ottobre 2025.




