Le Incompiute, Italia 1990

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Italia 1990

Le grandi nazionali incompiute, Italia 1990

Il quarto viaggio nella storia delle Nazionali incompiute ci porta in Italia e più precisamente tra l’8 giugno e l’8 luglio 1990. La terza “incompiuta” si è manifestata durante l’XIV edizione dei Mondiali di calcio, tenutesi in Italia. Era la Nazionale che si pensava vincesse il Mondiale, forte del fatto che giocasse in casa oltre ad avere una rosa molto forte. Eh sì, la terza Nazionale incompiuta è proprio la nostra Nazionale.

“Notti magiche/inseguendo un gol/sotto il cielo di un’estate italiana/e negli occhi tuoi voglia di vincere/un’estate/un più”: questo è il ritornello di una canzone che nell’estate 1990 è stata per molte settimane in vetta alle hit parade (e ancora oggi qualcuno se la riascolta). A cantarla erano due cantanti molto in voga nel nostro Paese, Gianna Nannini ed Edoardo Bennato. Quella canzone, dal titolo (ovviamente) “Un’estate italiana”, è stata la canzone dei campionati del Mondo di calcio che nel 1990 si tennero nel nostro Paese. Dopo cinquantasei anni, il Belpaese tornava organizzatore di un evento sportivo di importanza planetaria come appeal e business. E la nostra Nazionale, che dopo il Mundial spagnolo sembrava aver perso smalto, era una delle favorite per la vittoria finale non solo perché giocava in casa ma perché composta da ventidue giocatori di grandissimo valore.
Dopo un inizio proficuo di soddisfazioni, unito ad altre Nazionali che piano piano, tra le favorite, venivano eliminate, la doccia fredda una calda sera di inizio luglio. La doccia fredda arrivò in semifinale grazie ad un giocatore che militava in Serie A e ad un portiere che nessuno sapeva chi fosse e che ci fece un bello scherzetto parando due rigori nella “lotteria”. Alla fine arrivammo terzi, ma la sera dell’8 luglio 1990 avremmo voluto che ad alzare la Coppa del Mondo all’”Olimpico” fosse stato Giuseppe Bergomi e non Lothar Matthaeus.
Vediamo come, e perché, gli azzurri furono incompiuti nel Mondiale casalingo.

“Etrusco”, “Ciao” e tutti che ci davano per favoriti
Nel 1984, l’anno in cui una nostra squadra di club a Roma perdeva la finale Coppa dei Campioni, un’altra a Basilea vinceva la Coppa delle Coppe e la nostra Nazionale, Campione del Mondo in carica, aveva visto dal divano di casa l’Europeo francese, la FIFA incaricò l’Italia di organizzare il Mondiale di calcio che si sarebbe tenuto sei anni dopo. Una grande occasione: per un mese intero l’Italia sarebbe stata al centro del Mondo proprio grazie allo sport che da noi attirava più interesse. All’epoca il presidente della FIGC era Federico Sordillo mentre fino al 12 agosto 1983 a capo della Federcalcio europea c’era Artemio Franchi.
Partì subito la macchina organizzatrice: l’Italia allora era la quinta potenza mondiale, bisognava fare le cose in grande. E per prima cosa si partì con gli stadi.
Dodici città ebbero il privilegio di ospitare le partite iridate (Roma, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Udine, Bari, Torino), ma i loro stadi non erano idonei per ospitare un Mondiale. O meglio, dovevano essere rinforzato e/o restaurati. Ed ecco che molti lavori furono fatti in grande stile con gli apici in tre città: Milano, Bari e Torino. Se nella città meneghina il “Meazza” fu alzato di un anello, negli altri due capoluoghi di regione gli stadi vennero costruiti ex novo. Nacquero il “San Nicola” e il “delle Alpi” per mano degli architetti Renzo Piano e Sergio Hutter, opere avveneristiche da 60mila e 70mila posti a sedere che avrebbero preso il posto dei vecchi “della Vittoria” e “Comunale”. I costi per costruire quegli stadi furono esorbitanti (123 miliardi uno, 226 miliardi l’altro), ma erano bellissimi ed era necessario far vedere che l’architettura italiana era tra le migliori al Mondo. La pecca di quegli stadi erano le piste di atletica tra gli spalti e il campo, usate poche volte dopo di allora.
Il Mondiale sarebbe dovuto essere il traino per un’Italia che in quegli anni stava vivendo una luna di miele con il mondo dell’industria e del turismo, con il Mondiale che sarebbe stato l’apice della sua storia recente. Senza contare che a livello di club, l’Italia comandava il calcio europeo: nel 1990 il Milan vinse la Coppa dei Campioni, la Sampdoria aveva vinto la Coppa delle Coppe e la Juventus aveva vinto la Coppa Uefa battendo la Fiorentina. L’anno prima l’en plein fu sfiorato con la vittoria del Milan in Coppa dei Campioni, il Napoli trionfatore in Coppa UEFA e la Sampdoria sconfitta nella finale di Coppa delle Coppe dal Barcellona.
Il pallone ufficiale del Mondiale fu il celebre “Etrusco” dell’Adidas mentre la mascotte era “Ciao”, un omino stilizzato fatto con mattoncini tricolori il cui nome era stato scelto dopo un sondaggio tra gli avventori del Totocalcio. “Ciao” era (ed è tuttora) la parola italiana più conosciuta nel Mondo.
Dopo la mancata qualificazione a Euro ’84 e l’uscita agli ottavi del Mondiale messicano, la nostra Nazionale ebbe un sussulto nell’Europeo tedesco del 1988: terzo posto e molti giocatori interessanti che avrebbero fatto bene ad Italia ’90.
Italia e Argentina non dovettero disputare le qualificazioni in quanto Paese organizzatore e Paese detentore della Coppa del Mondo. Italia ’90 prevedeva sei gironi da quattro squadre, il nuovo formato degli ottavi-quarti-semifinali-finale introdotto in Messico andava benissimo e si proseguì su quella strada.
Il Brasile stava affrontando un periodo di ricambio generazionale e si qualificò per Italia ’90 per il rotto delle cuffia anche grazie all’”affaire Roberto Rojas”, mentre non si qualificarono la Francia (quarta nel 1982 e terza nel 1986, nonché campione d’Europa nel 1984) e la Polonia, terza nei Mondiali del 1974 e del 1982. Dopo due Mondiali di assenza tornarono i Paesi Bassi, campioni d’Europa in carica.
Erano presenti tutte le Nazionali vincitrici di almeno una Coppa del Mondo. Le matricole furono Costa Rica, Repubblica d’Irlanda ed Emirati Arabi Uniti: gli asiatici furono eliminati subito, i centroamericani arrivarono agli ottavi mentre gli irlandesi si spinsero fino ai quarti di finale.
Ma era il Mondo a cambiare: il 9 novembre 1989 era caduto il Muro di Berlino al culmine delle “rivoluzioni di velluto” dei Paesi comunisti europei con la caduta di quei regimi, la crisi cinese (lo studente davanti al carrarmato in piazza Tienanmen a Pechino) e nel dicembre 1991 ci fu l’implosione dell’Unione sovietica che si sciolse in quindici Repubbliche indipendenti.
Italia ’90 fu molto importante dal punto di visto storico perché fu il Mondiale delle ultime volte (ultima partecipazione di URSS, Germania Ovest, Cecoslovacchia, Jugoslavia) e delle prime volte (maxi copertura televisiva, prima squadra africana ai quarti di finale, prima volta che due squadre si sarebbero affrontate in finale a distanza di quattro anni dalla precedente).
L’Italia fu inserita nel Gruppo 1 con Austria, Cecoslovacchia e Stati Uniti d’America: un girone molto, ma molto morbido che gli azzurri chiusero con sei punti, con quattro reti e fatte e nessuna subita.
Nel Gruppo B ci furono gli argentini, con Camerun, Romania e URSS; nel Gruppo C Brasile, Costa Rica, Scozia e Svezia; nel Gruppo D Germania Ovest, Jugoslavia, Colombia ed Emirati Arabi Uniti; nel Gruppo E Spagna, Belgio, Uruguay e Corea del Sud; nel Gruppo F Inghilterra, Repubblica d’Irlanda, Paesi Bassi ed Egitto.
Agli ottavi di finale approdarono le prime due di ogni girone (Italia, Cecoslovacchia; Camerun e Romania; Brasile e Costa Rica; Germania e Jugoslavia; Spagna e Belgio; Inghilterra e Repubblica d’Irlanda) e le quattro migliori terze classificate (Argentina, Colombia, Paesi Bassi, Uruguay).
Il torneo si era aperto con la clamorosa vittoria del “Meazza” del Camerun sui campioni del Mondo in carica: i “leoni indomabili” ebbero la meglio su Maradona e compagni in nove uomini grazie ad un gol di François Omam-Biyik.
Non ci furono eliminazioni particolari nei gironi, se non quella dell’Urss che mai più avrebbe preso parte ad un Mondiale (da allora si qualificarono solo Russia e Ucraina delle Repubbliche indipendenti). Ma il vero eroe di quel mondiale fu un attaccante che mai avrebbe pensato di diventare in un mese il re del Mondiale, Salvatore Schillaci. Fino alle semifinali l’Italia aveva un’altra regina, la difesa, visto che fino alle semifinali non aveva incassato una rete, stabilendo ancora oggi un record che difficilmente verrà non solo superato, ma anche eguagliato.
La prima partita fu giocata il 9 giugno all’”Olimpico” e gli azzurri ebbero la meglio sull’Austria con un gol di Schillaci al 79′, l’attaccante della Juventus era entrato in campo quattro minuti prima al posto di uno spento Carnevale e ad undici minuti dalla fine del match mise in porta di testa il preciso cross di Vialli.
La seconda partita fu giocata cinque giorni dopo e questa volta a cadere fu la squadra materasso del girone, gli Stati uniti: a segnare il gol vittoria ci pensò Giannini già al minuto 11. Italia qualificata con una partita di anticipo, ma c’era da scoprire se la nostra Nazionale si sarebbe qualificata come prime o seconda. Ma quello era il nostro Mondiale ed il 19 giugno battemmo anche la forte Cecoslovacchia degli “italiani” Luboš Kubík e Tomáš Skuhravý (che arrivò al Genoa dopo la fine del torneo) con un perentorio 2 a 0 con reti del solito Schillaci e del 23enne Baggio, che siglò un gol da cineteca. Italia prima e tutti i tifosi che, in strada nei caroselli, nei bar o nelle proprie case dicevano: questo Mondiale lo vinceremo noi.
Negli ottavi di finale incontrammo la peggiore delle terze classificate, l’Uruguay del CT Óscar Tabárez che in rosa poteva contare (come tante altre nazionali partecipanti a quel campionato) giocatori che militavano in club italiani: Nelson Gutiérrez del Verona, i genoani Rubén Paz e Carlos Aguilera ed il laziale Rubén Sosa.
La pratica con i sudamericani venne risolta da Schillaci e Serena e nei quarti i ragazzi di Azeglio Vicini incontrarono una delle sorprese di Italia ’90, la Repubblica d’Irlanda dell’inglese Jack Charlton e Pat Bonner. Ci sbarazzammo anche dei “verdi” con un gol del solito Schillaci e arrivammo in semifinale. Difesa impenetrabile (zero reti subite in cinque partite), centrocampo molto forte (Giannini e Donadoni i migliori) e davanti Schillaci e Baggio stavano facendo faville con i vari Vialli, Mancini e Carnevale al palo.
Tra ottavi e quarti, ben sei partite furono risolte nei supplementari, di cui due ai rigori. La vera sorpresa fu l’approdo del Camerun nei quarti di finale: per la prima volta una compagine africana si era spinta fino alle migliori sedici, segno che il calcio nel Continente nero stava facendo passi da gigante, ma fino ad oggi solo il Senegal nel 2002 e il Ghana nel 2006 eguagliarono i “leoni indomabili”.
La semifinale vide il trasloco azzurro dall’”Olimpico” di Roma al “San Paolo” di Napoli e proprio nella città partenopea affrontammo i campioni del Mondo in carica dell’Argentina guidati da capitan Maradona.
I tifosi italiani già pensavano alla finale dell’8 luglio all’”Olimpico”: o Inghilterra o Germania Ovest. L’Argentina era arrivata in semifinale superando il girone come una delle migliori terze, aveva perso contro il Camerun al debutto ed aveva pareggiato con l’Urss, negli ottavi aveva sconfitto fortunosamente il Brasile mentre nei quarti aveva avuto la meglio solo ai rigori del “Brasile d’Europa”, la Jugoslavia. Maradona era lontano dalla forma migliore, fino ad allora non aveva mai segnato e aveva sbagliato il suo rigore contro gli slavi.
Le “notte magiche” sembravano non finire. E invece…

Caniggia ci punisce, Goycochea ci fa piangere: la fine delle “notti magiche”
Martedì 3 luglio 1990 si giocò la prima semifinale. Italia-Argentina era un classico della manifestazione, visto che per la quinta volta consecutiva le due Selezioni si incontravano (prima fase a gironi nel 1974 e nel 1978, seconda fase a gironi nel 1982, prima fase a gironi nel 1986). Da una parte l’Italia di Schillaci e Baggio, dall’altra l’Albiceleste con ben sette giocatori “italiani” in rosa (ed un altro, Oscar Ruggeri, che arriverà due anni dopo), guidata dal giocatore più forte del Mondo, Diego Armando Maradona, capitano e leader del Napoli vincitore dell’ultimo scudetto.
Visto che l’Argentina era la lontana parente di quella vincitrice quattro anni fa e consci di avere una squadra nettamente più forte, i tifosi azzurri si preparavano alla finale romana della domenica successiva.
E i presupposti erano buoni: Italia pericolosa, ben messa in campo e al 17′ Schillaci fece esplodere lo stadio napoletano buttando in porta la palla ribattuta da Goycochea su tiro di Vialli. Quinta rete mondiale per un giocatore che stava facendo sognare una Nazione intera. Le squadre andarono al riposo con gli azzurri avanti. Ma il destino beffardo è sempre pronto a metterti i bastoni tra le ruote.
La seconda frazione di gioco vide sempre di più l’Argentina avanzare con l’Italia subire. Spinto da un “San Paolo” inaspettatamente tifoso dell’Argentina, al minuto 23 la cosa che nessun italiano avrebbe voluto vedere: cross da destra di Olarticoechea verso l’area, la palla alta fu intercettata da Caniggia che saltò più in alto di Ferri e superò di testa Zenga. 1-1, palla al centro: dopo 517′, l’Italia subì il primo gol mondiale. Quel gol fu la fine del nostro Mondiale.
I tempi regolamentari si chiusero sull’1 a 1, così come quelli supplementari. Fu una partita epica anche perché i supplementari durarono 38 minuti e non trenta per una “svista” dell’arbitro francese Vautrot. L’ingresso di Baggio non servì a scardinare la tonica difesa sudamericana e neppure il “rosso” di Giusti. La finalista si sarebbe decisa ai calci di rigore.
I primi sei rigori (tre per parte) finirono in rete: Baresi, Serrizuela, Baggio, Burruchaga, De Agostini e Olarticoechea. Il settimo rigore vide incaricato dal dischetto Donadoni, uno dei migliori in quel Mondiale: Goychoechea para. Il quarto rigore argentino fu segnato da Maradona.
Il nono penalty fu fatale: dal dischetto Serena si vide respingere il tiro da un incredibile Goycochea. Il risultato fu impietoso: Argentina in finale a Roma contro la Germania che il giorno dopo sconfisse, sempre ai rigori, l’Inghilterra e Italia avrebbe giocato per il terzo posto a Bari contro gli inglesi.
Erano finite le “notti magiche inseguendo un gol”. Era finito il grande sogno di arrivare a distanza di otto anni un’altra volta in finale. Sul banco degli imputati e delle critiche Vicini e Zenga: il tecnico romagnolo per le scelte, il portiere dell’Inter, allora il migliore del Mondo, superato da un colpo di testa non impossibile, ma arrivato per un suo errore imperdonabile, impensabile per un estremo difensore del suo calibro.
Furono due gli eroi di quella partita: l’atalantino Claudio Paul Caniggia, un discreto attaccante dalla folta capigliatura bionda, e Sergio Goycochea, sconosciuto portiere allora in forza al Millonarios di Bogotà che in quell’estate fece lo…Zenga della situazione. Il destino è stato dalla sua parte: se non si fosse infortunato Nery Pumpido dopo due partite, magari il Mondiale (italiano e argentino) sarebbe finito in un altro modo.

Un terzo posto amaro e la finale più brutta della storia
Gli occhi del Mondo calcistico furono rivolti in due stadi, il “San Nicola” di Bari e l’”Olimpico” di Roma: nel primo, il 7 luglio, si disputò la finale per il terzo posto tra Italia ed Inghilterra, nel secondo la rivincita della finale del Mondiale messicano tra i campioni uscenti argentini e la Germania ovest, alla terza finale mondiale consecutiva.
A Bari si affrontarono una delusa Italia e la sorprendente Inghilterra, per la prima volta dalla vittoria del Mondiale casalingo del 1966 mai andata così avanti. Gli inglesi, una squadra nel complesso molto forte (da Shilton a Hoddle, da Platt a Hughes con in attacco Lineker e Gascoigne), erano usciti sconfitti al “delle Alpi” ai rigori contro la Germania ovest.
La vittoria andò all’Italia per 2-1 con la rete dei due protagonisti di quel Mondiale incompiuto, Baggio e Schillaci su rigore. Per il numero 19, quello fu il sesto gol in sei partite che lo consacrarono capocannoniere del torneo, seguito da Skuhravý con cinque. Dopo Paolo Rossi, un altro italiano aveva vinto la classifica marcatori di un campionato del Mondo di calcio.
Il gol della bandiera fu segnato da Platt, che si sarebbe accasato al Bari durante la stagione 1991/1992 e rimanendo in Serie A fino al 1995 vestendo anche i colori della Juventus e della Sampdoria: per il biondo centrocampista di Chadderton il computo dei gol nella manifestazione fu di tre reti. Il quarto posto degli inglesi fu motivo di orgoglio verso uno sport in quel Paese che era (ed è ancora) vissuto come una religione, ma che era contraddistinto dalle spericolatezze e dalle violenza degli hooligans e dalla distruzione (e morte) che portavano. Un risultato importante per una Nazione che, per ordine della UEFA, dalla stagione 1985/1986, e per un totale di cinque anni, aveva visto interdetta la partecipazione alle coppe europee delle proprie squadre.
L’Italia per la prima volta nella sua storia mondiale si classificò al terzo posto. Un terzo posto molto, ma molto amaro viste le premesse che volevano gli azzurri in finale e vittoriosi del titolo. Ed invece il giorno dopo all’”Olimpico” di Roma a giocarsi il terzo titolo mondiale furono la Germania ovest (all’ultima partita internazionale prima della “fusione” con quella dell’Est) e l’Argentina.
Tra i giocatori presenti in quella finale, ben dodici giocavano nel nostro massimo campionato (Abel Balbo, Claudio Caniggia, Gustavo Dezotti, Diego Maradona, Néstor Lorenzo, Néstor Sensini, Pedro Troglio; Andreas Brehme, Rudi Völler, Lothar Matthäus, Thomas Berthold, Jürgen Klinsmann) ed altri sei arrivarono negli anni successivi (Oscar Ruggeri, Stefan Reuter, Thomas Hässler, Karl-Heinz Riedle, Andreas Möller).
La finale iniziò con il piede sbagliato, con i fischi dello stadio all’inno argentino: i sudamericani furono visti come gli “scippatori” della finale azzurra e se al “san Paolo” tutti gli italiani avevano tifato per l’Argentina, in finale a Roma tutti erano contro l’Argentina e Maradona. Un gesto di una anti-sportività clamorosa, vista la sacralità del momento. Fece storia l’insulto ripetuto più volte dal capitano argentino verso i tifosi.
La Germania ovest, da sempre una Selezione dura da affrontare e che nei momenti topici non deludeva le attese, si apprestava a disputare la sua sesta finale mondiale in dieci partecipazioni. Nel suo cammino aveva sconfitto Jugoslavia ed Emirati e pareggiato contro la Colombia nella fase a gironi, eliminato i campioni d’Europa uscenti dell’Olanda negli ottavi, la Cecoslovacchia nei quarti e l’Inghilterra in semifinale.
La finale di Italia ’90 è considerata una delle più brutte finali della storia dei Mondiali e fu decisa da un rigore molto dubbio fischiato a sei minuti dalla fine della partita alla Germania Ovest da parte dell’arbitro messicano Edgardo Codesal Méndez. Dal dischetto Brehme non fallì, nonostante Goycoechea intuì la traiettoria. Germania ovest per la terza volta sul tetto del Mondo e Argentina che avrebbe dovuto attendere altri 24 anni per giocare un’altra finale mondiale (ironia della sorte, ancora contro la Germania e ancora una volta battuta). Per la seconda volta un Commissario Tecnico aveva vinto la Coppa dopo averla vinta da giocatore: Franz Beckenbauer.
L’anno d’oro della Germania si chiuse con la vittoria del Pallone d’oro di Matthaeus davanti a Schillaci e a Brehme.

Azeglio Vicini, il CT taciturno che arrivò ad un passo dal sogno
Dopo la fine del Mondiale messicano ci fu un cambio della guardia sulla panchina azzurra: si dimise dopo undici anni (con titolo ed un quarto posto mondiale oltre ad un terzo posto nell’Europeo italiano del 1980) Enzo Bearzot. Finiva uno dei matrimoni più lunghi tra un CT e la Federcalcio. Il sostituto fu preso dai quadri federali e si trattò di un ex discreto calciatore di club e allenatore federale sin dai tempi di Bearzot, il cesenate Azeglio Vicini. Vicini, classe 1933, era stato allenatore per dieci anni consecutivi della Under21 con cui proprio nel 1986 si era classificato al secondo posto nell’Europeo di categoria, il miglior piazzamento degli azzurrini fino a quel momento. E molto di quegli under giocarono il Mondiale due anni dopo (Zenga, Ferri, Maldini, Berti, de Napoli, Donadoni, Giannini, Mancini, Vialli).
Per Vicini l’occasione di vincere il Mondiale casalingo fu strepitosa, ma non la seppe cogliere: non a caso lui è il principale artefice del terzo posto finale e dell’eliminazione in semifinale. I motivi furono molteplici: dal puntare continuamente su un Vialli spento e poco efficace al non aver fatto i cambi tattici giusti nella ripresa del match contro l’Argentina, dal non aver creduto fino in fondo in Baggio ad aver sbagliato le marcature al “San Paolo”. E la doccia fredda arrivò l’anno dopo il Mondiale, con l’Italia che non si qualificò per l’Europeo svedese per due motivi: scarsa vena della squadra ed il famoso palo colpito da Ruggero Rizzitelli contro l’URSS nello scontro diretto.
Vicini fu esonerato e il suo sostituto fu per la prima volta un tecnico che non proveniva dalla Federazione ma da un club, Arrigo Sacchi.
Vicini fu bersagliato dalla critica per aver sbagliato una sola partita, ma i meriti non furono nel complesso suoi, ma l’aver allenato una squadra molto forte che per colpa di un rigore non partecipò alla finale mondiale che 56 milioni di italiani aspettavano con trepidazione.

L’uomo del destino: Salvatore Schillaci
In spagnolo c’è un’espressione che specifica il significato (calcistico) di uomo fondamentale di una squadra: hombre del pardido. Ad Italia ’90, l”uomo del partito” dell’Italia fu Salvatore Schillaci.
Nato a Palermo nel dicembre 1964, Schillaci si presentò al Mondiale come attaccante di riserva, premio per i quindici gol segnati nella Juventus al suo primo anno di Serie A dopo anni tra Serie B e Serie C. L’attaccante siciliano la stagione precedente aveva fatto faville a Messina, vincendo la classifica marcatori con 23 reti, la metà di quelle segnate da tutta la squadra. Eppure quella è stata l’”estate italiana” di un attaccante molto bistrattato dalla critica e insultato in ogni stadio. In pratica, come mandare al mittente tante critiche gratuite facendo sognare una Nazione intera.
Sono stati tanti i paragoni tra Schillaci e Paolo Rossi, capocannoniere come lui di un Mondiale. Il percorso dei due giocatori fu parallelo: convocazioni ottenute tra le critiche, ma sei gol che hanno fatto tacere tutti. Rossi con le sei reti portò a vincere un incredibile Mondiale, mentre a Schillaci le sei reti non servirono a vincere un Mondiale che si credeva di aver vinto in anticipo.
Fino a quel momento, Schillaci aveva giocato solo una partita (intera) con la Nazionale (a marzo contro la Svizzera) ed invece l’attaccante con gli occhi grandi e spiritati segnò a ripetizione con Austria, Cecoslovacchia, Uruguay, Irlanda, Argentina ed Inghilterra.
Dotato di una rapidità molto importante, le “notti magiche” di Totò furono contraddistinte dal fatto di essersi sempre trovato al posto giusto nel momento giusto.
A fine stagione, Schillaci si classificò al secondo posto nella classifica del Pallone d’oro dietro a Lothar Matthäus. Con i se e con i ma non si gioca a calcio, ma se l’Italia avesse vinto il titolo, probabilmente Schillaci avrebbe portato il premio di France Football in Italia dai tempi di Paolo Rossi.
Gli attaccanti preferiti da Vicini fallirono miseramente ed ecco che i migliori giocatori furono due giovani che la stagione successiva avrebbero giocato insieme nella Juventus, Schillaci e Baggio: otto gol per loro, zero gol per Vialli e Carnevale.
Schillaci purtroppo non soddisfò le attese: rimase a Torino altre due stagioni chiuso da Baggio e dall’arrivo in bianconero di colui che oscurò in azzurro (Vialli), passò all’Inter dove non fu per nulla decisivo. Dopo due stagioni sotto la Madunina, Schillaci prese armi e bagagli ed andò in Giappone, vestendo i colori del Júbilo Iwata. Già l’anno dopo il Mondiale italiano, uscì dal radar della Nazionle. Ma anche se Schillaci ha fallito dopo il Mondiale, ai tifosi italiani è entrato nel cuore e nelle loro tv quel ragazzo che nato povero in un quartiere povero di Palermo si era preso sulle spalle una Nazionale ed una Nazione che stava per riscrivere una pagina indelebile del calcio. Purtroppo le favole non finiscono sempre bene e quella di Totò da Palermo purtroppo non è stata rose e fiori. Ma è anche grazie a lui se ancora oggi, nel 2017, quando ascoltiamo, o ci capita di ascoltare, “Un’estate italiana” pensiamo a lui e al fatto che ci ha fatto sentire più italiani.

Cosa rimane oggi di quella squadra e di quel Mondiale?
Il prossimo 8 giugno si ricorderanno i ventisette anni dall’inizio di Mondiale di Italia ’90. Il calcio italiano si impose come il migliore d’Europa, con le squadre di club capaci di vincere le coppe europee o anche solo arrivare in finale e lottare come lupi contro le avversarie, vincendo il Mondiale tedesco del 2006. E proprio i calci di rigore sono stati la nostra croce (sconfitta contro la Cecoslovacchia nella finale per il terzo posto di Euro ’80; sconfitta contro l’Argentina a Italia ’90; sconfitta contro il Brasile nella finale di USA ’94; la sconfitta contro la Francia nei quarti di Francia ’98; la sconfitta contro la Spagna negli ottavi di Euro 2008; la sconfitta ai rigori di Confederations Cup contro la Spagna nel 2013; la sconfitta contro la Germania nei quarti di Euro 2016) e delizia (vittoria contro i Paesi Bassi nella semifinale di Euro 2000, la vittoria contro la Francia nella finale del Mondiale tedesco del 2006, la vittoria nei quarti di Euro 2012 contro l’Inghilterra, la finale per il terzo posto nella Confederations Cup contro l’Uruguay del 2013).
Ma torniamo a quel Mondiale: dopo di allora, l’Italia non ha mai più organizzato eventi internazionali, se non essere sede di finali di coppe europee (cinque finali di Champions League, doppia finale Uefa, otto squadre in finale in sette edizioni con due derby, nella finale unica una volta sede; in Coppa delle Coppe nessuna sede di finale ma due vittorie e una finale persa). Il nostro Paese aveva tra le mani l’organizzazione dell’Europeo 2012 andato poi a Polonia e Ucraina.
Il problema di fondo fu che quel Mondiale non solo da punto di vista calcistico ma “architettonico” fu un disastro: il “San Nicola” tra il 1990 e oggi è stato sold out poche volte in parte per i risultati non sempre positivi del Bari ed in parte perché la visuale degli spalti era pessima ed era troppo grande, il “delle Alpi” è stato addirittura abbattuto nel 2009 per fare posto al secondo stadio di proprietà italiano, lo “Juventus Stadium”. Per non parlare del fatto che per rinforzare, ristrutturare e costruire ex novo gli stadi di Italia ’90 persero la vita ventiquattro persone.
Il Mondiale italiano è ricordato ancora oggi per gli sprechi, i costi esorbitanti e i debiti lasciati da un evento che doveva cambiare in meglio il Paese ma che invece peggiorò la situazione. Senza contare le vittime sul lavoro e molti impianti abbandonati o non terminati.
Di quel Mondiale si ricorderanno (tra le tante cose) gli arbitri per l’ultima volta in giacchetta nera, la danza di Roger Milla (la makossa) dopo il gol alla Colombia davanti alla bandierina del corner.
Ma soprattutto il ricordo di essere stati noi gli incompiuti.
La rosa dell’Italia ad Italia ’90
Portieri: Zenga, Tacconi, Pagliuca;
Difensori: Baresi, Bergomi, Ferrara, Ferri, Maldini, Vierchowod;
Centrocampisti: De Agostini; Ancelotti, Berti, De Napoli, Giannini, Marocchi, Donadoni;
Attaccanti: Baggio, Carnevale, Mancini, Schillaci