Meglio il Barca di Guardiola o quello di Luis Enrique?

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Luis Enrique

Fare paragoni non è mai una bella cosa, ma il calcio è l’unico ambito della vita in cui è possibile, ed è permesso, fare paragoni. Di solito si paragonano stagioni, giocatori, stadi e tifoserie. Capita che si paragonino anche gli allenatori, un “terreno” che non dovrebbe prevedere paragoni, in quanto un tecnico è diverso da un altro e non si può paragonare un 4-3-3 giocato in una squadra con un’altra che ha un trequartista dietro le due punte o un’altra che usa un metodo “catenacciaro”.

Invece da martedì sera, ergo dopo la debacle della Roma al Camp Nou, anzi dopo la goleada rifilata dal Barcellona alla Roma martedì in Champions League (ma il punteggio, per “colpa” di Szczęsny, poteva essere ancora più rotondo) tra tifosi, addetti ai lavori ed amanti del (bel( calcio è sorta una domanda: è meglio il Barcellona di Luis Enrique o è migliore il Barcellona di Josep Guardiola? E meglio il Barça vertical (e tripletista a giugno) dell’asturiano o è meglio il Barça tiki-takiano (sextetista nel 2009) del “filosofo” catalano? Meglio il direttore d’orchestra di Santpedor o l’iron mandi Gijón? Tanti dicono che Luis Enrique in un anno ha quasi raggiunto quanto fece Guardiola in quattro (con le debite proporzioni), altri dicono che lo abbia già superato (con le debite proporzioni), altri dicono che non ci riuscirà mai. Nel dubbio, Lucho vince, convince e riscrive la storia del calcio.

I tituli (fa effetto usare una parola cara a Josè Mourinho parlando dei due rivali barcelonisti) per ora stanno dalla parte di Guardiola, anche per il fatto che “Pep” ha allenato il Barça quattro anni vincendo quattordici titoli (di cui sei internazionali in soli due anni), mentre Luis Enrique al primo anno sulla panchina catalana si è presentato con un “triplete + uno”, con buona pace di aver lasciato ad un Athletic Club Bilbao in stato di grazia (con in attacco un Aritz Aduriz in altrettanto stato di grazia) la Supercoppa nazionale. Comunque sia, in appena dodici mesi, Lucho ha fatto il triplete come Alex Ferguson, José Mourinho e Guardiola, ovvero il meglio del calcio mondiale.

Ma allora che differenza c’è tra i due tecnici? Innanzitutto lo stile: Guardiola è un esteta, un maestro di calcio con un certo physique du role(completo nero con camicia bianca e cravatta nera, a volte con maglione) ed una barbetta che lo fa sembrare essere un Platone che parla ai suoi allievi, con gli allievi stessi che si rivolgono a lui dandogli del “voi”, mentre Luis Enrique ha anche lui un fisico mica male (è un triatleta con i contro fiocchi), ma ha l’aria più sbarazzina, il capello riccio e a volte in panca si veste casual. Il tecnico di Gijon ne deve fare però di strada, anche perché il Barcellona è la quarta squadra che allena dopo il Barça B, la Roma ed il Celta di Vigo

Guardiola era (ed è) un esteta, un utopista che ha portato l’utopia a giocare a calcio tanto da farlo assomigliare a Rinus Michels e ad Arrigo Sacchi. Ma è anche l’inventore del “guardiolismo”, una religione, un pensiero sopraffino di calcio e di vita, un’idea di calcio dove Barcellona e Bayern Monaco sono diventate due macchine perfette, due piacevoli mostri bicefali. E i due “mostri” si sono sfidati la scorsa semifinale di Champions, con lo “studente” Luis Enrique che ha impartito una lezione del calcio al “maestro”: un netto ed indiscutibile 3 a 0 all’andata di un Barca contro un Bayern Monaco incapace di fermare la forza d’urto di un Barcellona che entrava nella trequarti bavarese come ridere.

Quando Josep Guardiola lasciò la Catalogna per la Baviera, il Barçasembrava non ingranare più: Tito Vilanova e Gerardo Martino in due stagioni fecero in modo di far rimpiangere Guardiola. Anzi, con l’addio del tecnico classe 1971, già si parlava di fine ciclo, che tutto era ormai tutto un ricordo, che il giocattolo si era rotto. E nel frattempo Guardiola era andato a “massacrare” la Bundesliga (prima stagione con titolo vinto con ben sette giornate di anticipo, Coppa di Germania, Supercoppa Uefa, Mondiale per Club) e l’odiatissimo Real alzava al cielo di Lisbona la decima Coppa dei Campioni: quanto avrebbero voluto i tifosi culés disputare la finale contro le merengues al posto dell’Atletico Madrid.

La dirigenza blaugrana invece fece una mossa che lasciò stupiti tutti: Luis Enrique, ex giocatore del Barça dal 1996 al 2004 ed ex allenatore del Barcellona B era stato chiamato a riportare sul tetto di Spagna ed Europa la squadra che fino a due anni prima faceva stropicciare gli occhi a tutti. Una scommessa ardimentosa, visto che Luis Enrique era non solo a digiuno di panchine “pesanti”, ma alle spalle aveva la pessima stagione italiana nella Roma e la salvezza raggiunta con il Celta di Vigo.

Dopo un avvio discreto, ecco che la squadra in inverno era la pessima figura di quella degli anni passati e Luis Enrique era a rischio esonero. A salvarlo è stato una cosa sola: il Gruppo (con la G maiuscola), in quanto il Barcellona è da sempre un Gruppo fatto e finito, uno stile di vita dove si vive di calcio e di emozioni, dove tutti sono uomini allo stesso punto. Dopo la sconfitta, i blaugrana il 6 giugno a Berlino completarono un triplete da urlo, con Lucho al timone.

Luis Enrique ha sancito che il tiki-taka non è essenziale, ma quello che conta è che la palla da centrocampo arrivi subito ai tre davanti e poi quello che succede, succede. E sicuramente o sarà gol o sarà un’azione pericolosa. E con il primo gol di Messi (quello del 2-o) si sono uniti il “guardiolismo” più puro ed il nuovo verbo portato in Catalogna dalla scommessa Luis Enrique.

Se il calcio del “filosofo” era (ed è) un mix di pressing asfissiante, palleggi, leziosismi ed un gioco bello ma a volte noioso, Lucho in diciotto mesi ha lasciato il palleggio da parte, cambiando gli altri “ingredienti” con colpi di genio, fantasia, accelerazioni e un centrocampo che ha perso sì la geometria di Xavi ma ha trovato l’architettura di Ivan Rakitić.

Se Guardiola ha avuto il privilegio di giocare ed allenare Xavi e Iniesta, Luis Enrique (che anche lui ha giocato con il folletto di Terrassa e con il talento di Fuentealbilla) ha invece a disposizione il miglior Iniesta di sempre (che era già forte prima, ma ora sembra esserlo ancora di più), unito ad un Javier Mascherano spostato al centro della difesa, due “canterani” in rampa di lancio come Sergi Roberto, Marc Bartra e Sergi Samper (chiedere per delucidazioni ad Salih Uçan) e i tre tenori sudamericani.

Sono anche cambiati gli interpreti, ma la solfa è rimasta uguale: se l’ex centrocampista di Roma e Brescia aveva in dote Puyol, Xavi, Ibrahimovic, Eto’o, Yaya Toruè e Henry, Luis Enrique invece ha un attacco stellare, formato dalla premiata ditta MessiSuarezNeymarm, un centrocampo ordinato ed ecclettico con un Iniesta più in forma che mai unito ad un più saggio Busquets e la new entry Rakitic.

Ma gli occhi sono tutti per la “MSN, un tris di attaccanti stellari e non più messi-centrici”

Guardiola ha avuto il meglio in attacco, attaccanti spettacolari, ma questo Messi, questo Suarez e questo Neymar sembrano che arrivino da un altro pianeta. E la scorsa stagione è stata emblematica: 176 gol segnati in totale dai ragazzi di Luis Enrique, di cui 122 segnati dal tridente (Messi 58, Neymar 39, Suarez 25), ovvero il 70% del totale.

La “MSN” è un qualcosa di sensazionale, l’arma in più di Luis Enrique: lo dice la loro tecnica sopraffina in campo, lo dice il fatto che non sono assolutamente in concorrenza fra loro, lo dicono i numeri.

Suarez, in particolare, sta facendo quello che David Villa faceva con Guardiola, con le debite differenze: l’attaccante ora in forza a New York City era forte fisicamente ed aveva un bel fiuto del gol, ma l’uruguaiano è infallibile, fa paura ogni volta che prende la palla, crea il panico tra i marcatori. Oltre a segnare a raffica e gol pregevoli (vedere, per ultima, la rete del 3 a 0)

Già Suarez, il cannibale. In due stagioni l’uruguaiano ha già segnato 42 reti, una più decisiva dell’altra e tra Real e Roma è entrato nel tabellino quattro volte ed in campionato ha già gonfiato la rete undici volte in dodici giornate.

I numeri nel calcio sono basilari, come i risultati. Ma con Guardiola ed Enrique si va oltre. Si deve andare oltre.

E’ un calcio che non ha nulla di scontato, di improvvisato, ma che è frutto di studio e applicazione. Un calcio di tecnica e velocità o di tecnica in velocità in cui tutti i giocatori si muovevano insieme.

Il calcio per lui è dedizione ed educazione fin da quando, da centrocampista, ha dovuto lavorare per diventare quello che è stato: uno dei tre spagnoli inseriti nella lista dei cento migliori calciatori della storia. Luis Enrique è un intellettuale del pallone. La squadra deve essere corta e deve giocare nella metà campo degli altri.

Una cosa che accomuna i due allenatori è l’aver annichilito il Real Madrid: 5 a 0 il x 29 novembre 2010, 0 a 4 gli “enriquiani” sabato scorso. Da una parte, l’apogeo toccato dal “guardiolismo”, dall’altro una schiettezza tattica che ha messo all’angolo le merengues di Benitez

Sabato il Real, che sta vivendo una crisi al suo interno tra i mal di pancia di Ronaldo e gli errori tattici di Benitez, si è piegato ad un Barcellona che ha fatto la Partita con la P maiuscola, una lezione di calcio data ad una squadra che avrà i due giocatori più pagati della storia del calcio, ma che non è un ensemble come quello allenato da quello che a Roma quasi cacciarono. C’è da dire che il Real della manita era più forte di quello di don Rafaè.

Intervistato sul fatto se il suo Barça è migliore o meno di quello di Guardiola, lui ha glissato dicendo che queste sono domande da giornalisti, mentre a lui quello che conta è vincere e continuare sulla strada che lui e l’equipo hanno intrapreso.

Martedì sera il Barcellona è stato cattivo, concreto e concentrato sull’obiettivo. Ergo, di questo passo, e salvo sorteggi beffardi, una finalista per la finale di san Siro c’è già. E sarebbe stupendo (per il gioco del calcio) se l’altra finalista, salvo altrettanti sorteggi beffardi, fosse il Bayern Monaco di “Pep” Guardiola. Sarebbe il top se Barcellona e Bayern Monaco giocassero la finale. Solo per il gusto di capire davvero chi tra Lucho e Pep è il migliore sul campo.

Luis Enrique ha davanti a sé anni per eguagliare il Maestro. La strada sarà lunga, ma se l’andazzo è quello visto finora, Guardiola deve guardarsi alle spalle.

Siamo a fine novembre e la finale di Milano sembra lontana, ma nessuna squadra ha mai vinto due volte consecutive la Champions League. Neanche il Barcellona di Josep Guardiola. In otto hanno vinto almeno due Coppe dei Campioni consecutivamente. L’ultima in ordine di tempo è stato il Milan di Sacchi ed era il 1989-1990

E questa è l’unica cosa che rimane all’Italia, spettatrice (pagante) di un calcio da veri Maestri.